Posts written by Kasra;

  1. .
    Domani parlerai con Sanami Matoh, Ayano Yamane, Miki Araya e Shiuko Kano, per la disperazione e la tristezza che gli hai messo smetteranno di disegnare Yaoi e comnceranno a convincere anche le altre autrici.

    Ceeerto
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    Casca a fagiolo! Sì...
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    Anch'io Itachi...
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    Ti ringrazio^^
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    Grazie mille >///<
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    Grazie^^
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    «Ma io sono Itachi Uchiha!»





    La lunga ed elegante limousine color petrolio frenò dolcemente di fronte al locale. Giovani ed adulti in cerca di divertimento si affannavano all’entrata, mentre i due armadi a tre ante – che poi erano i buttafuori – cercavano di contenere la mandria che smaniava di scatenarsi sul dancefloor e abbordare al bancone.
    Itachi osservava la calca con un sorrisetto, soddisfatto del successo del suo locale, lanciando con lo sguardo una frecciatina al fratello, il quale preso com’era da Naruto non ci fece caso. Kiba scherzava con Sai, mentre Neji e Shikamaru osservavano distrattamente gli altri.
    Ad un certo punto bussarono al finestrino oscurato: Itachi abbassò il vetro e l’autista, un giovane sui vent’anni piuttosto carino, sorrise affabile e accennò con un movimento del capo al locale dietro di sè.
    «Arrivano».
    Di lì a due secondi sotto le gigantesche luci rossastre dell’insegna che recitava Sharingan’s Club comparve un gruppo di ragazze agghindate con divise alla marinara, un po’ troppo grandi per poter frequentare ancora il liceo. Itachi si affrettò ad aprire la portiera, il suo battito d’improvviso più rapido alla vista della fidanzata, mentre un movimento alle sue spalle gli segnalò che anche gli altri scendevano dall’auto per fare i cavalieri.
    Notò con la coda dell’occhio chiome bionde, castane e rosa sparire dietro di lui, finché accanto alla ragazza che non riusciva a smettere di fissare non restava solo la promessa sposa. Kiba raggiunse Hinata col cuore in gola, trattenendosi dall’istinto di appartarsi con lei in un qualsiasi posto e si limitò a baciarla con passione, prendendola in braccio e portandola fino all’auto.
    L’Uchiha, rimasto in piedi, si decise ad avvicinarsi alla moretta e le sfiorò velocemente le labbra.
    «Ehi», fece lei allegra, trattenendo la bocca dell’altro contro la propria.
    Un languore si fece rapidamente strada nello stomaco dei due, che però non poteva ancora essere placato.
    «Voi due, quelle cose fatele a casa vostra!», li richiamòNaruto con una risata, beccandosi uno scappellotto da Sas’ke, mentre Kiba replicava con un: «Senti chi parla» e Neji rembeccava sentenziando un: «Da che pulpito». Entrambi, imbarazzati, tornarono a sedersi sui divani in pelle nera e l’ultima coppietta si unì a loro.
    Shikamaru diede l’indirizzo all’autista, che partì sgommando ed i ragazzi presero a servirsi drink e snack, le luci soffuse, la musica bassa e stimolante.
    Un brindisi dopo l’altro, una bottiglia dopo l’altra, erano sempre più allegri. Solo i due Hyuuga e Nara si astennero.
    «Agli sposi!».
    «Alle limousine!».
    «Alla tequila!».
    «Al sesso!».
    «Agli spogliarellisti!», brindò Elisa, facendo scontrare il proprio calice con quello di Temari ed ingoiando il liquido ambrato.
    Itachi la guardava con un cipiglio che sembrava di rimprovero, mentre i convitati salutavano gli altri mano a mano che giungevano alle proprie case.

    Infine fu il turno dell’Uchiha maggiore di fornire la destinazione allo chauffeur.
    «Ma è fuori città, ci vorrà almeno un’ora!», notò quello.
    Tuttavia Itachi non replicò e tirò su il finestrino interno.
    Elisa era ancora su di giri, un sorriso enorme stampato in volto. Si sdraiò contro la spalla del fidanzato e sospirò entusiasta, cominciando a gesticolare.
    «Oooh, Itahi, è stato fantastico!». Risata. «E gli spogliarellisti, dovevi vederli, erano così sexy...».
    Al ragazzo venne un tic all’occhio e bloccò i polsi della giovane, guardandola negli occhi grigio tempesta, tra il comprensivo e l’irritato.
    «Quanti bicchieri hai bevuto?».
    «Mah, sette... otto, forse di più... che importa!».
    Il moro la lasciò e la strinse tra le braccia, dandole un bacio sui capelli ed accarezzandola.
    «Sciocca, lo sai che non reggi l’alcool...».
    Lei si indispettì e svicolò dalla presa.
    «Massì che lo reggo, sto benissimo!».
    L’espressione di Itachi era inequivocabile: sotto il peso di quello sguardo, Elisa si sentì un po’ in colpa, decidendo di scioglierlo un po’.
    Riavvicinandosi, si strusciò contro il petto di lui, sporgendo bene in fuori il seno stretto nella camicetta da scolara.
    «Dai Itachi, non fare il difficile...», miagolò languida, accarezzandogli il torace con un indice, cosa cui l’Uchiha non rimase indifferente, ma che decise di ignorare. Notando un’apparente mancata reazione, la ragazza prese a leccare lascivamente il collo del fidanzato ed esultò interiormente quando udì un unico, roco sospiro. Le mani di lui andarono ad insinuarsi nei capelli lisci della compagna, scendendo lentamente sulla nuca – la pelle ghiacciata provocò un brivido d’eccitazione ad Elisa – attraverso il cotone leggero e sintetico della blusa, proseguendo il loro corso.
    Lei, entusiasta di come stava andando, slacciò senza contenersi troppo i bottoni della camicia del moro e sostituendo l’abbandono del tessuto con la propria bocca. Sospirò, l’eccitazione che cresceva sempre di più. La pelle di Itachi aveva un odore così... invitante. Non si trattenne e mentre mordicchiava i capezzoli bruniti ed Itachi le sollevava la minigonna palpandole il fondoschiena, le dita della ragazza si affrettarono ad abbassare i pantaloni ed i boxer dell’Uchiha, trovandosi di fronte al membro teso e turgido di lui. La salivazione aumentò, gli occhi le pizzicarono di bramosia. Calò su quell’asta che in un istante sparì tra le sue labbra, esperte ed avide di accoglierla. Succhiava, e Itachi gemeva. Leccava, e Itachi ansimava. Pompava, toccava e stuzzicava, e Itachi implorava e chiedeva di più.

    Quando poi Elisa dovette riprendere fiato, si ritrovò subito la bocca impegnata da quella dell’altro che la divorava vorace. Si sentiva accaldata, il cuore batterle furiosamente nel petto mentre la lingua di Itachi non le dava tregua, lisciandole la sua, sfiorandole il palato e le guance.
    Il bacio passionale lasciò entrambi senza respiro e mentre si reggevano l’una all’altro e si ansimavano nelle orecchie, Itachi sussurrò con voce roca: «Comunque sei davvero eccitante vestita così», e le morse il lobo, strappandole un flebile gemito di protesta.
    Le mani di lui ora desideravano solo spogliarla, ma nella frenesia i bottoni non volevano saperne di uscire dalle asole. L’Uchiha armeggiò con quegli arnesi infernali finché non perse la pazienza e le fece sfilare la camicetta dalla testa, provvedendo subito al reggiseno.
    Elisa si accomodò su una gamba di lui, la minigonna che scopriva un’ampia porzione di coscia e gli agganci delle autoreggenti dal bordo di pizzo, mentre il moro affondava il viso nel seno di lei, stringendo una delle protuberanze ed indurendosi al vederla gonfiarsi tra le mani, al sentire sulla lingua il capezzolo inturgidirsi, nelle orecchie gli ansimi della fidanzata vogliosa, le sue dita nella lunga chioma ormai sciolta dell’Uchiha.
    Itachi non sapeva dove palparla, avrebbe voluto possedere almeno cinque o sei mani in più. Passava dal seno, ai fianchi, alle natiche senza sapere dove soffermarsi, finché non decise che i tanga, seppur, striminziti, erano di troppo: il suo membro, scoperto, sfregava contro la femminilità ancora celata di lei e non riusciva più a trattenersi: la ragazza si sollevò, aiutandolo a sfilarle la mutandina di pizzo e finalmente il corvino poté godere della morbidezza di quella pelle. Il suo lungo ed eccitato sospiro venne intrappolato dalla bocca di Elisa, che lo divorava affamata. Gli succhiava le labbra senza freno e condusse la lingua umida dell’altro in uno sporco bacio a bocca aperta.
    Saliva, umori, sudore. Musica sensuale. Luci basse. Caldo.
    Itachi agguantò le cosce della compagna, le tirò e lei si ritrovò con la schiena al sedile, semisdraiata, le gambe avvolte al collo del ragazzo e la sua vulva pronta a bagnarsi.
    Ed ecco che Itachi cominciava a leccargliela e lei gemeva forte, la gola secca, senza forze, eccitata, mentre l’Uchiha la guardava negli occhi e l’aria si caricava di sesso.
    La punta della lingua del moro era implacabile, la viziava, la stuzzicava senza pietà, e gli ansimi saturarono l’abitacolo. Poi le sfiorò il clitoride ed Elisa per poco non esplose.

    «Aaaah!... Itachi... basta... giocare...!».
    Le sue unghie raschiavano le spalle del compagno, strappandogli ulteriori gemiti e decise che era d’accordo con lei e ne aveva abbastanza.
    La tirò su e facendola sedere sul proprio bacino, entrò completamente in lei.
    «Aaaah!».
    Cominciarono subito a muoversi, la voglia era costringente.
    Spinta.
    Tum-tum. Tum-tum.
    Caldo.
    Tum-tum. Tum-tum.
    Morbido.
    Tum-tum. Tum-tum.
    Invitante.
    Guidava i movimenti della ragazza con i propri, il ritmo frenetico li stordiva, li eccitava ed entrambi sapevano che non sarebbero durati ancora a lungo.
    «Sì! Itachi! Sììì!».
    Elisa ansimava senza ritegno, impalandosi con libido sempre crescente, il pene di Itachi che centrava continuamente un suo punto erogeno che la mandava in estasi.
    Uno, due, tre.
    I due amanti esplosero, i propri liquidi si mischiarono, i loro gemiti si armonizzarono, accompagnandosi con le ultime spinte.
    Infine, sudati ed ansanti rimasero aggrappati l’una all’altro, gli odori pungenti nelle narici, la pelle appiccicosa ed accaldata che li stordiva.
    Itachi prese a cullare Elisa, accarezzandole i capelli, mentre lei gli baciava il collo e lo stringeva a sé.
    Rimasero abbracciati per un tempo indefinito, finché ad un certo punto il moro riconobbe fuori dal finestrino un viale familiare. Lo fece notare alla fidanzata ed in silenzio si rivestirono, scambiandosi maliziose occhiate d’intesa.
    Tempo cinque minuti e l’elegante limousine parcheggiò di fronte all’entrata di Villa Uchiha.
    Lo chauffeur scese e corse ad aprire la portiera ai passeggeri, che uscirono con un cenno di ringraziamento verso di lui. La ragazza si stiracchiò, mentre l’autista tornava al posto di guida.
    Itachi si avvicinò al finestrino e bussò con le nocche.
    «Quanto ti dobbiamo?».
    Quello scosse il capo e le mani e sorrise furbo.
    «Nulla». E fece loro un occhiolino per poi rialzare il vetro oscurato e fare retromarcia.
    Rimasti soli, Elisa soffocò una risata al vedere il viso rosso di imbarazzo del compagno, il quale guardava ovunque meno che verso di lei. La giovane si avvicinò, gli schioccò un bacio a fior di labbra e prendendogli la mano, si diressero a casa.


    *_*_* ItaEli *_*_* Merry Xmas *_*_* ItaEli *_*_*




    «Kanpai!».
    Il tintinnio dei calici risuonò per tutto il giardino e dopo la prima sorsata il chiacchiericcio si riaccese.
    «E quindi Costantino non vi ha fatto pagare nulla perché...?», chiese Naruto allegro mentre Kiba si sporgeva per ascoltare.
    «Già», confermò Elisa con una risata, portando nuovamente il bicchiere alle labbra.
    La cerimonia era stata organizzata nel parco degli Hyuuga, abbastanza ampio da poter ospitare almeno il doppio delle persone che in quel momento vi si trovavano. E non erano poche.
    «Ehi, ma il lancio del bouquet?», domandò ad un tratto un’entusiasta Ino, mentre altre ragazze cominciavano a ridacchiare.
    Sakura si avvicinò alla sposa con un sorriso sereno di incoraggiamento. Il corpo snello fasciato da un abito color pesca al ginocchio, una ciocca rosa le scivolò sulla guancia, scappata dal fermaglio adorno di fiori chiari. Hinata si voltò verso l’amica e ricambiando l’espressione radiosa annuì, alzandosi in piedi. Hanabi la raggiunse, sollevandole lo strascico e la accompagnò al centro del giardino, mentre venivano raggiunte da Kiba e Shino.
    Sakura abbracciò Hinata, dopodiché si voltò verso la folla.
    «Tutte le ragazze single o non maritate qui per favore!».
    Una decina di giovani donne si accalcò di fronte a lei, bramose il mazzo di fiori.
    Elisa si voltò verso Itachi, facendogli un occhiolino e il segno della vittoria per poi riportare l’attenzione sulla mora ed il marito.
    La giovane si girò di spalle e dopo un attimo di pausa lanciò il bouquet, che sorvolò il parto perfettamente curato, seguito dagli occhi dei convitati e raggiunse il gruppo di aspiranti promesse spose. Venti braccia si sollevarono, pronte ad afferrare la promessa matrimoniale e...
    «Oh, ma tu pensa!», esclamò Elisa.
    Nel parco risuonò un applauso, poco dopo accompagnato dai fischi di apprezzamento del pubblico maschile quando Kiba sollevò l’ampia gonna dell’abito della moglie per lanciare la giarrettiera.
    Haruno scosse il capo e abbracciò la fortunata vincitrice.
    «Omedetoo! (1)».
    «Arigatoo, Sakura-chan!».
    Sas’ke sbuffò scocciato all’idea che la ragazza sarebbe entrata a far parte a tutti gli effetti della famiglia, ma il maggiore gli diede uno scappellotto che fece erompere Naruto e Sakura in una fragorosa risata.


    Quando anche le ultime luci del crepuscolo sparirono gli sposi vennero accompagnati nella villa per cambiarsi e prepararsi alla luna di miele, lasciando gli invitati a ballare nell’ampia veranda.
    Poi il suono di un clacson richiamò amici e parenti che corsero ad accalcarsi sul vialetto per salutare i novelli sposi.
    «Fate buon viaggio!».
    «Divertitevi!».
    «Dateci dentro!».
    L’auto partì tra i battimani e le lacrime di orgoglio ed Elisa cinse Itachi in vita, stringendo il bouquet fra le dita.
    «Spero davvero che siano felici».
    «Anch’io», concordò il moro abbracciando la ragazza. «E chissà, forse anche il nostro momento non è poi così lontano...».


    おわり~




    1Congratulazioni!


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  8. .

    The Legacy of Uchiha Clan
    - Scorching Summer -




    Itachi era appena uscito dalla doccia, un asciugamano striminzito legato in vita e un altro che stava sfregando contro la lunga chioma corvina. Pigre gocce d'acqua scivolavano lente lungo il suo torace, accarezzandogli l'addome, per poi andare ad insinuarsi oltre le pieghe di quel panno di spugna.
    Avanzò lungo il corridoio fino a giungere nel salottino. Era piena estate e Itachi decise di tenere i capelli umidi per rinfrescarsi un po'. Gettò con elegante noncuranza l'asciugamano sul divano e si avvicinò alla ragazza che stava seduta sulla sedia di fronte a lui, dandogli le spalle. Probabilmente cercava di rinfrescarsi col piccolo ventilatore posato sul bancone della cucina. Le avvolse le braccia attorno alle spalle e al collo e avvicinò le labbra all'orecchio di lei.
    «Dio, che caldo che fa oggi ... ».
    Ciò detto, le leccò sensualmente il guscio di pelle, mordicchiandole leggermente il lobo. La ragazza sentì un brivido lungo la schiena e si voltò verso l'amante.
    «Sai, Itachi ... secondo me fa davvero troppo caldo ... ».
    La ragazza dunque afferrò i lembi di quel misero quanto insignificante asciugamano bianco ed umido che serviva a tutto meno che coprire il corpo del giovane e lo slacciò con disinvoltura, per poi sfilarsi l'abitino di cotone leggero e trasparente, che indossava senza neppure il reggiseno talmente quel luglio era afoso. Itachi le pizzicò i fianchi e lei scattò: si fiondò subito sulle sue labbra, affamata, accaldata, cercava solo di trovare una qualche frescura, che di sicuro non avrebbe potuto trovare nel corpo invitante, prestante e decisamente perfetto di Itachi. La sua lingua cercava senza sosta quella di lui che d'altro canto, pareva non desiderasse altro che rincorrere quella della ragazza, trovare sollievo in qualche modo, perché Dio! quella erezione era davvero fastidiosa.
    «Elisa ... », ingoiò a vuoto, in un attimo di pausa in cui le fameliche labbra di lei non gli stavano divorando le proprie. Quella ragazza era un concentrato di desiderio e malizia, ogni santa volta che la vedeva l'unica cosa a cui pensava era: adesso, non intendo aspettare altro.
    L’afferrò in vita e la sospinse verso la parete, senza indugio, mentre lei si sfilava le mutandine in fretta. Itachi le sollevò una gamba, mentre le braccia di lei gli avvolgevano il collo e continuavano a baciarsi come se la bocca dell'altro fosse diventata la propria aria. Il cazzo di Itachi continuava a sfregare contro la femminilità di lei, l'Uchiha avrebbe solo voluto spingersi e fare sesso con Elisa per tutto il giorno e la notte, da quanto si sentiva eccitato.
    «Itachi ... che diavolo stai aspettando ... ? Aaaah ... ».
    La voce di Elisa lo stordiva. Voleva sentirla ancora, così scese con le labbra sul collo di lei, succhiando e leccando ogni lembo di pelle che riusciva a raggiungere. Avrebbe voluto dedicarsi anche ai seni ma non vi arrivava, così rimediò con le dita, che presero a stuzzicarle i capezzoli.
    «Aaaah .... Itachi ... ti voglio ..... or-a ....aaaaah! .... ».
    Aveva i suoi ansimi nelle orecchie, non ne poteva più. Afferrò il suo membro pulsante e anche già umido, le sollevò ulteriormente la gamba e la penetrò.
    «Aaaaaaaaaaaahh!!!!!!», il gemito fu un coro di lussuria. I respiri dei due amanti erano frettolosi, bisognosi e Itachi non si fermò neppure per farla abituare, tanto la desiderava. Nonostante la posizione scomoda cominciò a spingere, mentre la ragazza gli andava incontro mordendo le labbra di lui ora forte, ora piano, non riuscendo a baciarlo come desiderava per il bisogno di gemere quanto più forte riusciva. Itachi dal canto suo affondava senza sosta, il chackra che spontaneamente si incanalava nei fianchi per potenziare le sue spinte. Non voleva solo fare l’amore con lei, voleva assaporarla, averla completamente ... sentiva che quel piacere non era abbastanza ... si spinse con ancora più forza, mentre Elisa ansimava eccitata, incitando l'amante. Provava esattamente lo stesso, quella posizione non riusciva a soddisfarla pienamente.
    «Eli ... fammi venire ... non ne posso più ... ».
    Itachi uscì a malincuore, il membro più pulsante che mai, arrossato, teso all'inverosimile. Elisa subito si abbassò prendendolo in bocca e cominciando a succhiarlo con vigore, col palato e con le guance, leccandolo per quanto riusciva, finché non sentì l'orgasmo di lui esploderle in bocca, cogliendola di sorpresa. Ingoiò tutto, tirandosi a sedere ed asciugandosi un angolo della bocca con il dorso del braccio.

    Itachi la recuperò al volo, non avendo ancora finito e la trascinò in camera da letto, facendola sdraiare subito e baciandola ardentemente. Le lingue e i denti si scontrarono con violenza, mentre lei subito rigettava le gambe attorno al bacino di Itachi che si rispinse nella sua femminilità senza esitazione, ricominciando quell'amplesso non ancora terminato. Itachi non riusciva a capire più niente, il suo corpo agiva da solo. Lasciò le labbra di lei per scendere sul suo collo e poi finalmente raggiungere i seni, che succhiò, per poi mordicchiarle i capezzoli. La sentiva inappagata, sapeva che come lui anche Elisa desiderava qualcosa su cui poter sfogare il suo piacere. Le porse un paio di dita da sostituire momentaneamente alla propria lingua e lei subito cominciò a succhiarle e morderle a seconda della spinta. Non sapeva neppure più quando Itachi aveva cominciato a centrare il suo punto erogeno, forse fin dall'inizio, ma non ci stava facendo caso.
    «Itachi ... più forte, più forte!!! .... aaaaaah!!!».
    Si sentiva così potente e così debole in queste situazioni!! Itachi sapeva esattamente dove colpirla, cosa fare, per farla uscire di testa. Quel giorno però si sentiva talmente vogliosa e accaldata che non riusciva a raggiungere il culmine. Sapeva solo che voleva Itachi, lo desiderava con ogni fibra del suo essere, voleva essere presa da lui in tutti i modi possibili e sapeva anche che avrebbe permesso all'Uchiha di farle qualsiasi cosa. Il moro da parte sua non poteva che dedicarsi a quel corpo senza fermarsi, con quella ragazza che si coordinava perfettamente ai suoi desideri e alle sue voglie.
    "Dannato caldo!”, pensò. Sarebbe già venuto non fosse stato per quel dettaglio, per l'insaziabilità di entrambi e per il piacere provato. Si sentiva quasi un animale tanto erano il desiderio e la bramosia che lo stordivano. Uscì per l'ennesima volta da quel corpo che sapeva non avrebbe scambiato con nessun altro e la fece inginocchiare di spalle. Non la penetrò dalle natiche sode e lisce, ma al buco solito e scivolò dentro con velocità e precisione.
    Solo gemiti popolavano quell'afosa giornata di luglio. Il letto sfatto era madido di sudore, bagnato per i liquidi che gocciolavano dalle intimità dei due amanti per il piacere. Ad un certo punto in entrambi scattò qualcosa e l'amplesso raggiunse l'apice.
    «Aaaaahhh!!! Eli!!! Sto per .....».
    «Anch'io!!!! .... aaaaahhh!!!».
    E l'orgasmo esplose in entrambi. I due amanti erano certi che quella era stata la volta più bisognosa che avessero mai vissuto. Ricaddero ansanti sul materasso svuotati e anche la calura, con l'approssimarsi della sera, portò un leggero venticello ristoratore.

    Si sentivano privi di forze, come svuotati, il respiro fuori controllo. Si guardarono negli occhi, esausti ed esaltati e Itachi le diede un bacio sulla fronte.
    «Koishiteru. Non so mai come esprimerlo abbastanza bene, una parola mi sembra così scontata».
    Lei scosse la testa e lo abbracciò. «Grazie».
    Da quando si erano incontrati la prima volta era una specie di rituale. Ecco, in quel momento c'era davvero molta pace. Rimasero sul letto abbracciati per minuti incalcolabili finché Itachi non udì dei passi avvicinarsi e la voce del fratello di lei che tornava ed annunciava la sua presenza.
    «Tadaima!».


    おわり~




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  9. .

    The Legacy of Uchiha Clan
    - Reunion -





    «Itachi?!».
    “Non è possibile, lui è …”
    Il ragazzo non riusciva a capire. Si trovava in un genjutsu? Aveva ricontrollato più volte il flusso del proprio chakra ed era normale, perciò niente illusioni.
    Ma quindi … ? Mille dubbi si affacciarono nella mente del giovane mentre la figura che aveva attirato la sua attenzione continuava ad avanzare tra i rami, impassibile, senza parer di averlo sentito.
    L'altro però non demorse: non aveva alcuna intenzione di lasciarlo scappare. Doveva parlargli, dirgli tante di quelle cose, fargli domande …
    «Itachi! Matte! (1)», esclamò, scattando subito alle spalle del più grande, continuando a chiamarlo senza ricevere risposta. Era frustrato.
    Allungò il passo, avvicinandosi al suo obiettivo finché non riuscì ad afferrarlo per il lungo mantello nero dalle nuvole rosse che svolazzava dietro di lui.
    «It-...!».
    Il secondo successivo il ragazzo si ritrovò sbattuto contro il tronco di un albero, la mano del maggiore stretta alla gola.
    «Ita … chi … ».
    Il giovane si aggrappò a quel braccio cercando di allentare la presa, ma senza successo.
    «Niisan, lasciami!», sbottò irritato. Era assurdo che si stesse lamentando come all'età di otto anni, ed ancora più incredibile era che l'altro avesse reagito a quell'appellativo lasciando libero il suo inseguitore, aggrottando le sopracciglia.
    «Sas'ke?».
    Il minore si tastò la parte lesa ed annuì, serio.
    «Niisan … ma come … ?». Sas'ke lasciò cadere l'ovvia domanda.
    «Kabuto», rispose sbrigativo, come se ciò spiegasse tutto – ed effettivamente era così. «Come stai, otouto?», chiese, posandogli una mano sulla spalla, rigido e preoccupato.
    A quella domanda, l'interpellato sentì i nervi tendersi e la sete di vendetta infiammargli le vene. Digrignò i denti e parlò, ma non si azzardava a guardare il fratello negli occhi.
    «Sono deluso, niisan. Arrabbiato».
    E poi, all'improvviso, per la seconda volta dalla morte del maggiore, Sas'ke pianse. Le lacrime gli inumidivano copiose il viso, stringeva i pugni per cercare di trattenersi e non farsi vedere dall'aniki, ma inutilmente.
    Quella visione prese Itachi in contropiede: in quel momento rivide il suo otouto bambino che cercava il conforto del fratello. Si sentì come a quindici anni, con l'unica differenza che in quel momento non c'erano più bugie o falsità: era semplicemente sé stesso – più o meno. Perciò non poté far altro che abbracciarlo forte e Sas'ke si aggrappò al lui con forza, stringendo tra le dita tremanti la stoffa ruvida del mantello nero. Itachi sentiva i brividi che lo scuotevano da capo a piedi, le gocce salata che gli inumidivano la cappa, ma non vi badò.
    «Shh, Sas'ke … va tutto bene … », gli sussurrava piano, accarezzandogli il capo. Non l'aveva mai visto così scosso, neppure dopo la strage del clan.
    «Niisan … mi dispiace … ».
    I singhiozzi erano incessanti; vedere il minore, sempre così orgoglioso e forte, in quello stato lo distruggeva.
    «Avevo … così bisogno ... di te … ».
    Se l'Edo-Itachi avesse potuto, avrebbe pianto anche lui.
    «Ora sono qui, Sas'ke … ».
    C'era quiete, nella foresta. Il ragazzo poco alla volta si chetò, confortato dal fratello, per poi rialzare lo sguardo sull'altro, gli occhi arrossati.
    «Va meglio?».
    Sas'ke annuì. «Arigatou, niisan».
    Itachi sorrise e gli scompigliò i capelli, chiedendogli cos'avesse fatto nell'ultimo anno e ascoltò allibito il racconto del minore, mentre percepiva crescere l'irritazione.
    «Doushite, Sas'ke? (2)».
    Era ironico come la situazione si fosse capovolta: al contrario di quella notte, durante la quale il più piccolo chiedeva disperatamente il perché della strage, stavolta era il maggiore a domandare spiegazioni.
    «Cosa ti è saltato in testa?».
    Itachi si infervorò, sotto lo sguardo confuso del fratellino che non riusciva a comprendere la ragione per cui il suo aniki stesse reagendo in quel modo.
    «Ma, niisan … come potevo non farlo? Come avrei potuto non pensarlo?», esclamò, il tono aumentato di un paio di tacche. «Dopo tutto ciò che ti hanno fatto passare, dopo aver distrutto la nostra famiglia! Sei stato tu a dirmi di aggrapparmi alla vita e trascorrerla nell'oscurità … ».
    Itachi a quel punto scosse la testa, dispiaciuto e deluso: era proprio ciò che aveva temuto nell'affidargli quel compito, molti anni prima.
    «Otouto, hai frainteso».
    Le sue parole furono per Sas'ke come un fulmine a ciel sereno. Sgranò gli occhi, stupefatto, senza capire. Fece per dire qualcosa, ma l'altro lo precedette.
    «Non pretendo che tu abbia capito tutto allora, né dopo la spiegazione che deve averti dato Madara, ma io dovevo salvarti, otouto. E per farlo l'unica soluzione era farmi odiare e farti bramare ardentemente vendetta, per poi donarti un nuovo potere. Ma sei stato corroso dal buio … ». La sua voce calò, diventando prima cupa, e poi triste. «Certo, riconosco che sia anche colpa mia se tu sei cambiato tanto ... ma non voglio la distruzione di Konoha, non l'ho mai voluta. Per questo ho dovuto … fare ciò che ho fatto. Sono stato, e sarò sempre, Itachi Uchiha del Villaggio della Foglia».
    Non vi era traccia di menzogne in quelle parole, né necessità di fingere.
    «Ma d'altro canto, otouto, non potevo ucciderti, non potevo. Distruggere Konoha non cambierà le cose, non ti arrecherà soddisfazione. Hai già ottenuto la tua vendetta su di me e su Danzo, ed è stata la cosa giusta da fare. Ma ora basta: torna a casa».
    Ed eccolo di nuovo: quel sorriso sereno che Itachi aveva un istante prima di morire. Quell'espressione di incomprensibile felicità era tornata a campeggiare sul bel volto dell'Uchiha.
    Sas'ke lo guardava sconvolto.
    “C-cosa … ?”
    Sentì uno strappo dalle parti dello stomaco e si resse la testa, scosso da profondi brividi di orrore e ribrezzo per sé stesso e per ciò che aveva fatto, pensato e creduto.
    Davvero aveva deciso, seriamente, di distruggere la Foglia? Di ammazzare Sakura? Di eliminare dal suo cammino persino Naruto, che in tutti quegli anni non aveva fatto altro che cercarlo e dichiarato di volersi sacrificare per il villaggio, proprio come Itachi, affrontandolo in una battaglia mortale?
    Non aveva scuse, il perdono era un miraggio irraggiungibile ed immeritato.
    «Niisan … boku wa … (3) ».
    «Daijoubu, Sas'ke. Daijoubu (4)», lo consolò di nuovo Itachi, paziente ed affettuoso. Il minore appoggiò il capo sulla spalla del fratello, che lo strinse a sé: un contatto confortevole e rassicurante, sensazioni che aveva ritenute perse e dimenticate.
    «Però, niisan, ci dovremo lasciare ancora».
    Udì un sospiro proveniente dal maggiore, e lo strinse ancora più forte. Non era davvero suo fratello: avrebbe dovuto combatterlo nuovamente e non era certo di poterlo affrontare una seconda volta.
    Ad un tratto sentì il corpo di Itachi irrigidirsi e si allontanò di scatto, osservandolo guardingo: dopotutto era un'Edo Tensei. Il volto dell'altro era serio e concentrato.
    «No. Non ti abbandonerò di nuovo, Sas'ke», sentenzò con voce determinata.
    «Cos'hai in mente?».
    «Farmi tornare in vita, otouto».
    Il piccolo sgranò gli occhi.
    «E come pensi di fare?», domandò perplesso, ma l'altro non badò alla domanda, riprendendo il viaggio. Sas'ke non perse tempo, portandosi subito alle spalle del maggiore, dirigendosi più velocemente possibile verso il covo di Kabuto, concentrando il chakra negli arti inferiori.

    Essendo la loro destinazione nella direzione opposta impiegarono poco più di un'ora, che trascorse in silenzio, entrambi persi nei propri pensieri.
    Infine, trepidanti, giunsero alla grotta ed entrarono cauti, Sharingan attivo. Non rilevarono altri chakra, se non quelli delle migliaia di Zetsu bianchi che riposavano placidi nell'acqua.
    Si inoltrarono ancora di più, puntando ovunque lo sguardo per trovare colui che stavano cercando. C'era troppa calma, i fratelli erano inquieti.
    «Mitsuketa! (5)», esclamò all'improvviso Itachi a bassa voce. Si apprestò subito a comporre i sigilli per un jutsu, ma il minore lo precedette: il suono acuto e stridente del Chidori ruppe il silenzio, seguito immediatamente dal fragore della roccia distrutta che rovinava in terra.
    Non serviva che si diradasse il fimo, gli Sharingan dei due Uchiha avevano permesso loro di distinguere senza problemi la figura ammantata del medic-ninja.
    «Ci si rivede, Sas'ke-kun», fece una voce viscida e roca.
    Il ragazzo interpellato riconobbe subito quel tono odioso che aveva dovuto sopportare per anni.
    «Kabuto», sputò, come se il nome dell'uomo fosse un insulto, e si voltò a fronteggiarlo col fratello, il quale si portò automaticamente davanti all'altro, un istintivo gesto di protezione nei confronti del minore.
    «Proprio te cercavamo», lo informò tranquillo.
    «Ma davvero?». Gli occhi di Kabuto brillarono di malizia e si passò la lunga lingua sulle labbra. Quando era diventato così orribilmente simile al Sennin delle Serpi? «Ben due Uchiha che scelgono spontaneamente di venire da me? Orochimaru-sama ne sarebbe invidioso».
    «Non c'è dubbio», commentò Itachi sprezzante. «Ma non siamo qui per offrirti i nostri servigi».
    Quindi si rivolse al fratello: «Otouto, stai indietro, ci penso io».
    Tuttavia, quello non sembrò intenzionato ad obbedirgli, non quella volta.
    «No! Niisan, smettila di cercare di proteggermi! Per tutta la vita non hai fatto altro! Lascia che ti aiuti ora!».
    Il maggiore si irrigidì: era difficile accettarlo. A parte durante il loro ultimo scontro, i suoi ricordi consistevano nella voce del fratellino a nove e tredici anni che lo chiamava. Ciò nonostante dovette ammettere che Sas'ke era davvero cresciuto, e diventato anche molto forte.
    Pertanto decise di scostarsi, indietreggiando fino al fianco dell'altro.
    «Mangekyou Sharingan!».
    «Sen'ei Jashu!».
    Gli Uchiha scattarono subito in posizione di difesa e prima che i serpenti potessero raggiungerli, una lama di fulmine aveva già mozzato loro le teste.
    Kabuto ghignò: «Sei davvero migliorato, Sas'ke-kun».
    Il ragazzo non replicò, limitandosi a fissarlo con disprezzo.
    «Vuoi davvero sfidarci, Kabuto?», gli chiese Itachi, scettico. «Due possessori del Mangekyou Sharingan e del Susano'o … anche se provi a scagliarci contro le tue Edo, dubito in una tua vittoria».
    «Tentar non nuoce. Ma non ricorrerò ai miei burattini».
    Ciò detto, sfilò il mantello color porpora, accovacciandosi per terra: era davvero ripugnante.
    «Sapete, Orochimaru-sama non era riuscito a diventare un vero Sennin … ma io si».
    E si scagliò verso i due Uchiha.

    Lo scontro era più duro di quanto i fratelli avessero immaginato: il medi-ninja aveva sperimentato parecchio su di sé, acquisendo nuovi poteri contro i quali Itachi e Sas'ke si videro costretti a sfoderare la propria Difesa Assoluta, come protezione e come arma.
    Kabuto era velocissimo, si fondeva con le rocce, sfuggiva dietro alle stalattiti, schivava le frecce di uno e la spada dell'altro. Anche solo tenergli testa richiedeva un ingente ausilio del chakra, il cui livello ben presto calò, costringendo gli Uchiha a ritirare il Susano'o. Erano tesi come felini pronti a balzare sulla preda: Sas'ke stringeva la sua kusanagi, Itachi pronto a lanciare kunai e shuriken.
    Ad un tratto il sennin spuntò di nuovo e la danza fatale ricominciò, senza che nessuno che sembrasse surclassare l'altro.
    I fratelli però avevano osservato a lungo il proprio avversario, tanto che in un attimo di tregua dagli attacchi il maggiore creò un cerchio di fiamme nere come difesa e si affrettò a condividere i suoi sospetti con il più piccolo.
    «Ricordi quando ci occupammo di quella caccia al cinghiale, parecchio tempo fa?», chiese, ottenendo una risposta affermativa dal minore, dal cui labbro ed occhio scendevano rivoli di sangue.
    «Allora avrai notato un'analogia con la nostra situazione attuale».
    «Sì, è decisamente familiare», concordò ironicamente.
    «Non sbagliare stavolta».
    Nonostante il respiro affannoso, Sas'ke riuscì a ghignare: «Non ho più nove anni, niisan. Il cinghiale non scapperà».

    Non percepivano il chaka del nemico da una decina di minuti, ma erano certi che sarebbe spuntato da un momento all'altro.
    Itachi richiamò Amaterasu e nel giro di due secondi Kabuto era di nuovo nel loro mirino. Abilmente, i fratelli lo misero spalle al muro: a furia di schivare fendenti ed armi a distanza, il medic-ninja fu costretto alla parete rocciosa; scattò verso l'alto aggrappandosi ad una protuberanza, ma non appena la raggiunse Sas'ke scagliò la kusanagi contro il serpente bianco che seguiva il sennin come un'inquietante coda. Quando la lama lo trapassò, questi soffiò, mostrando le zanne macchiate di sangue e si contorse su sé stesso, il liquido rosso che sporcava le squame candide.
    Un altro Chidori, e prima che Kabuto potesse liberarsi il soffittò crollò, obbligandolo a terra. Anche se sotto le macerie, però, non era ancora morto, e dopotutto senza vita non sarebbe servito a molto.
    Itachi si avvicinò, pronto a colpire, ma l'avversario, emergendo repentinamente dalle pietre, afferrò con la lingua il manico della kusanagi, dirigendola di scatto verso il petto dell'Uchiha maggiore, infilzandolo e girando l'arma nel corpo, insinuandola più a fondo.
    «NIISAAAN!».
    L'urlo di straziante dolore di Sas'ke divertì Kabuto, che l'ascoltò ghignando, mentre l'Edo spasimava e sputava sangue, finché non rimase immobile. Il minore era pietrificato dall'orrore, incapace di contrarre un solo muscolo.
    Il medic-ninja si liberò quindi del serpente defunto, recidendolo da sé con il bisturi di chakra e si alzò, avvicinandosi al suo burattino.
    «Direi che dovresti tornare tra le tue fila, Itachi-san: troppa autonomia ti fa male».
    Quindi cominciò a rielaborare il fuda indebolito: mano a mano che componeva i sigilli, però, Kabuto era sempre più frustrato, senza alcuna ragione apparente. E poi, all'improvviso, uno stormo di corvi si librò al posto del corpo dell'Edo, stridendo forte e svolazzando nella grotta semi-distrutta.
    Lo stupore del sennin era palese. Fece per muoversi, ma scoprì troppo tardi di non esserne in grado.
    «Dovevo immaginarlo», commentò amareggiato.
    «Ti avevo avvertito, Kabuto», replicò Itachi, prendendolo per il collo ed avvicinando il viso a quello dell'altro, guardandolo dritto negli occhi.
    «Ti conviene fare ciò che ti dirò. So perfettamente che solo tu puoi disattivare le Edo, ma non è ciò che voglio. Quello che devi fare ora è riportarmi in vita».
    Il medic-ninja lo sbeffeggiò: «Convincim- Aaaargh!».
    Non terminò neppure la frase che era caduto nello Tsukuyomi dell'Uchiha: mille lame lo trafiggevano una dopo l'altra, il corpo lancinante di dolore, le urla squarciavano il cielo plumbeo e cupo, raggiungendo inascoltate la luna scarlatta di quel mondo illusorio e surreale.
    Non era mai stato trasportato in un genjutsu simile e non riusciva ad uscirne: vedeva il proprio sangue scorrere a fiotti, ogni respiro era una sofferenza intollerabile.
    «Aaaargh!».
    Il corpo si contorse di nuovo in preda agli spasmi.
    «Quanto ancora resisterai, Kabuto?».

    Il tempo passava, ma il sannin non dava cenni di cedimento: sebbene percepisse le torture ed il dolore insopportabile, riusciva a mantenere la mente lucida, più resistente di quanto i fratelli si aspettassero.
    Kabuto ridacchiò sadicamente, la voce sfociò nell'ennesimo urlo che Itachi si costrinse a non sentire e sospirò, frustrato. Sapeva che c'era un'ultima cosa da fare, ma voleva evitarla: i rischi erano troppi e non credeva fosse mai stata utilizzata quella tecnica nella storia degli shinobi.
    Tuttavia, riconobbe che non vi era altra scelta: prese un respiro profondo per rilassarsi e prepararsi.
    “Izanami”.
    Le grida cessarono immediatamente e lo sguardo dell'avversario si fece vacuo. Sas'ke guardò interrogativo il maggiore, che lasciò la presa sul medic-ninja, crollando in terra, reggendosi l'occhio destro. Per quanto il più piccolo poteva vedere, stava sanguinando abbondantemente, tra i gemiti di dolore.
    «Niisan, che succede?», domandò preoccupato, chinandosi verso di lui.
    «Izanami», sussurrò Itachi. «Credo si sia risvegliato quando Kabuto mi ha sottoposto all'Edo-Tensei. Non pensavo fosse possibile». Quindi si voltò verso il minore. «Conosci Izanagi?», chiese, ed al vedere l'altro annuire proseguì. «Se Izanagi permette di cambiare il passato, un'azione subita al prezzo della luce di un occhio, Izanami è ancora più potente: consente di decidere le sorti del futuro».
    Sas'ke, inizialmente incredulo, ne prese atto in fretta: lo scontro con Danzo gli aveva dato abbastanza tempo per rifletterci su, ed il suo sguardo tornò deciso.
    Itachi si rivolse a Kabuto: «Riportami in vita». Il medic-ninja si voltò, cominciando a camminare come in trance, seguito dai due Uchiha.
    Giunsero in una stanza malamente illuminata da candele, le cui fiamme tremolanti rivestivano tutto l'ambiente di luce rossastra. Sul fondo vi era una scrivania ricoperta da fogli zeppi di appunti, qualche rotolo ed una dozzina di ampolle; nel mezzo campeggiava un grosso tavolo di legno scuro, con le cinghie – probabilmente era qui che il medic-ninja lavorava, ma soprattutto, sugli scaffali altissimi alle pareti erano posati barattoli di vetro colmi di liquido trasparente nei quali galleggiavano, terribilmente inquietanti, innumerevoli Sharingan.
    A quella vista i fratelli strinsero i denti, ripensando entrambi alla strage della famiglia e soffocando l'istinto omicida di ridurre in brandelli chi aveva osato desacralizzare i cadaveri dei loro parenti per prenderne i bulbi oculari.
    Una voce sadica, ma in qualche modo vaga li richiamò.
    «Sdraiati, Itachi».
    L'interpellato obbedì, slacciandosi il mantello dell'Akatsuki che aveva portato tanto a lungo e fece come richiesto. Sas'ke assisteva muto alla scena, pronto ad intervenire se ve ne fosse stato bisogno. Osservò diffidente Kabuto che trafficava agli scaffali e un dubbio gli attraversò la mente.
    «Niisan, se io ho i tuoi occhi … quelli che hai adesso di chi sono?», domandò esitante.
    «Di papà (6)», rispose il maggiore, calmo, le palpebre serrate, mentre il medic-ninja cercava qualcosa tra i barattoli. Quando finalmente parve averla trovata, afferrò il contenitore e lo appoggiò sul tavolo.
    «Ma allora perché cambiare gli occhi? Izanami ne sacrifica solo uno».
    «Sì, è così. Ma gli occhi che Kabuto mi impianterà sono molto particolari. Se non esistessero non potrei mai tornare in vita, sarei un'Edo come adesso».
    L'altro non se la sentì di dar voce alla sua ovvia domanda.
    «Sono i tuoi, otouto».
    Il minore sentì un brivido corrergli lungo la schiena e lanciò un'occhiata al vasetto che Kabuto aveva prelevato.
    «Ricordi il giorno della mia morte? Ti impiantai Amaterasu, inserendo un po' del mio chakra dentro i tuoi occhi. Sarà quello che mi permetterà di resuscitare completamente, e non come Incarnazione Impura».
    Sas'ke ingoiò a vuoto: lui con gli occhi di Itachi, il fratello con i suoi …
    Kabuto si avvicinò al piano, reggendo tra le mani degli strumenti lucidi ed appuntiti.
    «Non guardare», ordinò serio l'Edo e Sas'ke obbedì. Ma non poté impedirsi di sentire le urla del maggiore: gli penetravano prepotenti nelle orecchie, scuotendolo da capo a piedi.
    Infine, dopo brevi o lunghissimi attimi tornò il silenzio, quasi disorientante ed il minore si azzardò ad aprire lentamente le palpebre: il viso di Itachi era pallidissimo, smorto, e coperto per metà da candide bende bianche.
    “Non è ancora finita”, pensò.
    Il medic-ninja impose le mani sul torace del cadavere ed un flusso di chakra verdino, curativo, cominciò a scorrere dai palmi dell'uno al corpo immobile dell'altro, rischiarando l'ambiente cupo. Kabuto mormorava parole in silenzio, concentrato, mentre con lo Sharingan attivo Sas'ke osservava il sistema del chakra del fratello riprendete a funzionare, con un ritmo lento ma costante.
    Non sapeva per quanto tempo continuò quel processo: minuti, forse ore, ma poco a poco il viso di Itachi riacquistò colore finché un lieve battito ruppe la tensione creatasi.
    Il minore ebbe un sussulto, ma notando che Kabuto non sembrava aver terminato si costrinse a stare fermo per gli ultimi istanti: tratteneva il fiato tanta era la sua trepidazione.
    E poi Itachi schiuse appena la bocca ed emise un flebile e roco respiro.
    La luce verdina sparì e a quel punto Sas'ke scattò, accostandosi al tavolo e guardò spaventato e felice il corpo del fratello.
    «Niisan», sussurrò.
    Dopo qualche altro respiro Itachi mosse le labbra e parlò di nuovo, la voce racchiante.
    «Sas … ke … ».
    Ed il minore lo abbracciò forte, mentre il più grande sollevava pesantemente un braccio e circondava la schiena dell'otouto accarezzandolo con fare fraterno, un sorriso sulle labbra.
    Si staccarono poco dopo, quando Itachi, dando al più piccolo dei colpetti sulla spalla, lo fece scostare. Fece quindi leva sull'asse e si portò a sedere lentamente, reggendosi il capo con una mano: sentiva tutti i muscoli indolenziti e la testa girare, ma stava bene.
    Spostò le gambe, provando a mettersi in piedi: gli tremavano le ossa, ma Sas'ke lo sorresse, aiutandolo a raggiungere una posizione eretta.
    «Niisan, daijoubu?».
    L'altro annuì. «Andiamocene».
    I fratelli si avviarono piano all'uscita, lanciando un'occhiata di ringraziamento al medic-ninja che ghignò, crudele.
    «In ogni caso non vincerete mai la guerra».
    Itachi si fermò solo un istante, e senza voltarsi replicò: «Vedremo».


    ___うちは 一 族___


    Itachi si riprese in fretta: in poche settimane aveva ottenuto il controllo del proprio chakra e padroneggiato i jutsu appresi in vita. Anche essendo morto da più di un anno, si era rivelato ancora una volta l'orgoglio del clan.
    Si allenava con Sas'ke dall'alba al tramonto, spesso anche di notte, interrompendosi solo per rinfrescarsi, mangiare qualcosa e riposare. Lanciava perfettamente shuriken e kunai, piazzava trappole ed eseguiva le tecniche con un consumo minimo di energia e chakra.
    Ma più importante di tutto, aveva risvegliato il Mangekyou Sharingan, e con esso Susano'o e Amaterasu, ricreando anche lo Tsukuyomi. Quest'ultima fase era stata la più faticosa: dopo gli allenamenti i fratelli erano sempre esausti, soprattutto a causa del minore che insisteva a fargli esercitare il genjutsu su sé stesso. Tuttavia era talmente entusiasta che Itachi non poteva non accontentarlo e dopotutto ne trassero vantaggio entrambi.


    ___ POV イタチ ___


    Infine, convenimmo che era giunto il momento di separarci.
    Sas'ke voleva che fossi orgoglioso di lui, desiderava fare qualcosa che scongiurasse il tradimento commesso anni prima e per far questo doveva tornare a Konoha: se non per restarci, almeno per affrontare definitivamente il suo rivale di sempre.
    Mi offrii di accompagnarlo per un po', avevo intenzione di cercare informazioni su dove si trovasse Madara, di come si fossero alleate le Terre Shinobi.
    L'ultima sera non ci fermammo neppure per dormire, proseguendo il cammino fino all'alba. Il sole sorse presto, tingendo tutto di giallo chiaro e rosato, e sorrisi al vedere quello spettacolo naturale.
    “È bello essere di nuovo vivi”, pensai rasserenato.
    Poi mi rivolsi al mio fratellino: «Comincia un nuovo giorno, otouto».
    Verso le nove del mattino giungemmo nei pressi di un piccolo villaggio, il più prossimo alla Foglia.
    Al vederlo persi un battito. Sentivo lo sguardo di Sas'ke su di me, ma non mi mossi finché lui non parlò, serio.
    «Niisan … devo dirti una cosa importante».
    Non mi voltai, ma tenni gli occhi fissi sulle case all'orizzonte, lo sguardo lontano.
    «Hai conosciuto Elisa».
    Lo sentii annuire. «Anche tuo figlio».
    A quel punto ero certo che il mondo avesse smesso di girare, solo per un millesimo di secondo. Mi voltai a fissarlo, stupefatto.
    «Che cosa?!».
    Sas'ke pareva sorpreso dalla mia reazione. «Non … non lo sapevi?».
    Scosso la testa, le orecchie ovattate, cercando di digerire la notizia.
    Ero padre?
    Non capivo più niente, sentivo solo il bisogno irrefrenabile di correre al villaggio, trovare Elisa e baciarla fin quando avessi avuto fiato. E conoscere il bambino, mio figlio … e quello di lei …
    «Come si chiama?», chiesi. Sentivo la mia voce lontana mille miglia, come appartenente a qualcun altro.
    «Shisui».
    «Shisui?!». Dovevo sedermi.
    «Già», confermò Sas'ke. «È stato uno shock anche per me».
    Ma non lo ascoltavo più. Non poteva essere un caso, era così forzato e così ovvio …
    “Unmei no hito (7) … Sentito, cugino? Anche tu sei tornato a vivere …”
    La voce del mio fratellino mi riscosse dal filo disordinato dei miei pensieri.
    «Credo che sia ora di lasciarci». Prese un respiro profondo e mi guardò. «Jaane, niisan (8)».
    Al che sorrisi, picchiettandogli la fronte con l'indice ed il medio, come avevo sempre fatto in passato.
    «Arigatou, Sas'ke. Mata konto da (9)».
    I suoi occhi color notte si sgranarono: era la prima volta che me ne uscivo con una frase del genere, ma era molto più rassicurante delle precedenti: dava una speranza.
    Sas'ke annuì, sereno. Si sistemò meglio la kusanagi sulla schiena e si voltò, diretto a casa.
    Lo guardai avanzare finché non sparì oltre le colline, le labbra ancora piegate all'insù, per poi volgere lo sguardo verso Tanzaku: il cuore mi batteva furiosamente nelle orecchie mentre mi avvicinavo alle porte del villaggio, trepidante …
    Poi dal paesino uscirono due figure. Da quella distanza erano molto piccole, ma il mio udito allenato distinse nel venticello leggero uno scampanellio. Dovevo essere sbiancato.
    Un passo dopo l'altro mi approssimavo sempre più rapidamente, un nodo alla bocca dello stomaco.
    Quando giunsi ad un centinaio di metri dalle due ombre riconobbi un ampio cappello di paglia affrettando ulteriormente il passo, quella sensazione cogente ancora presente, tormentosa.
    Ad un tratto la figura più piccola fece un cenno all'altra, indicandomi con una mano. L'interpellata si voltò subito nella mia direzione, rimanendo immobile per un attimo e poi scattò verso di me, correndo come se fosse inseguita, il cappello che le volò dalla testa, ricadendo sul prato.
    “E' lei, è davvero lei ...”, era l'unica cosa che riuscivo a pensare mentre le sfrecciavo incontro.
    Quando ci incontrammo a metà strada mi si lanciò direttamente tra le braccia, stringendomi forte, come a volermi entrare dentro, accarezzandomi la schiena, la nuca, ansimando per la corsa, mentre anch'io potevo finalmente sentire la morbidezza della sua pelle, il profumo dei capelli, il suo corpo caldo, dopo un anno e mezzo che era parso un'eternità.
    Mormorava il mio nome con venerazione, come in una mantra, sentivo le lacrime bagnarmi la guancia e la maglia, il suo corpo tremante e la strinsi ancora più forte, beandomi di quella sensazione di serenità che stavo provando.
    Rimanemmo così, senza dire niente, sfiorandoci finché lei non allentò la presa, abbastanza da potermi vedere in volto. Ci guardavamo come ipnotizzati, il cuore pompava impazzito, i suoi occhi chiari luccicavano per le lacrime e per la gioia. Le accarezzai il viso con le mani, nelle quali si cullò prima di guardarmi di nuovo, dolcemente. Allora abbassai il capo e feci coincidere le nostre labbra, bisognoso, muovendole con decisione. Sentivo quella pelle piena, tenera ed invitante e non potevo fare a meno di succhiarla e vezzeggiarla mentre anche lei schiudeva le labbra e la sua lingua si allacciava alla mia, rincorrendola ed intrecciandosi con essa.
    Ci baciammo con passione, senza volerci separare e solo quando non potemmo più fare a meno di riprendere fiato ci separammo. Le diedi qualche altro bacio a fior di labbra mentre respiravamo velocemente.
    «Itachi … », mormorò lei.
    Un altro lieve bacio.
    «Sono qui, Eli … », sussurrai, mentre con le labbra le sfioravo le guance increspate dal pianto, la punta del naso, la fronte. La sentii sorridere e mi guardò radiosa, i nostri occhi ancora incatenati, nei suoi vi lessi meraviglia, felicità e amore. Mi abbracciò di nuovo, appoggiando il capo sul mio petto con un sospiro ed io presi ad accarezzarle i capelli, dimentico momentaneamente di qualsiasi altra cosa che non fosse la donna che stringevo tra le braccia.

    Nel frattempo, l'altra figura ci aveva raggiunti. Era il fratello di lei, che reggeva un fagotto candido. Quel piccolo involto attirò immediatamente la mia attenzione e mi voltai con Elisa verso il ragazzino. Dalle coperte spuntava un faccino paffuto, gli occhietti erano chiusi e dormiva profondamente, il piccolo petto che si alzava ed abbassava ritmicamente.
    Al vederlo sentii un calore incredibile pervadermi, come se ogni mio organo si fosse fuso. Lei mise un braccio attorno alle spalle del minore, facendolo avvicinare, in modo che potessi vedere il pupo da vicino.
    «Shisui», dissi. Non era una domanda.
    «Nostro figlio», precisò.
    Suonava così bene. Nostro figlio. Non potei fare a meno di sorridere, chinandomi verso il piccolo e chiedendole il permesso.
    «Posso?».
    Lei rise.
    «Ma certo che puoi».
    Annuii e lasciai suoi fianchi sottili per prenderlo in braccio, accostandolo a me. Mentre lo cullavo mi sentivo orgoglioso, felice. Quel bimbo era mio, mio e di Elisa, ed era bellissimo.
    “Il primo esterno al clan”, pensai divertito all'idea di cos'avrebbe detto mio padre.
    Elisa ci guardava serena, accarezzandomi la schiena come ad incitarmi. Ad un certo punto il cucciolo aprì gli occhi, rivelandone un paio scuro, made in Uchiha, che si legò al mio sguardo meravigliato ed io mio sorriso si allargò.
    «Ciao, Shisui», e gli depositai un bacio sulla fronte, facendolo ridere. Al sentire quella risata chiara mi illuminai e guardai Elisa raggiante. Lei mi sfiorò le labbra con le sue e mi fece un cenno: capii che dovevo passarle il bimbo e così feci. Presolo, si rivolse a me e al fratello.
    «Otouto, kore wa Itachi da (10)».
    Lui fece un sorrisetto furbo: assomigliava molto ad Elisa con quell'espressione.
    «Wakatte iru, neesan (11). In ogni caso, lieto di conoscerti, Itachi. Mi chiamo Marco», disse in tono leggero. Chissà cosa pensava del fatto che fossi la causa del parto della sorella poco più che ventenne. Però mi tese la mano amichevolmente e la strinsi senza troppi complimenti.
    «Piacere mio», replicai.
    Elisa osservava la scenetta divertita. Finita la presentazione rise di nuovo e mi prese sottobraccio, appoggiando il capo sulla mia spalla.
    «Okaerinasai (12)».
    Sentirmelo dire, come se quella fosse veramente casa mia era una sensazione strana, ma piacevole, soprattutto dato il saluto che mi aveva riservato prima che mi recassi al rifugio del clan. “Itterasshai” (13), aveva detto. Ed ora ero tornato.
    «Tadaima (14)».



    ___うちは 一 族___



    La giornata era trascorsa con una tranquillità limpida e calmante, il cielo azzurro nontiscordardimé sembrava sorridere, senza uno sbuffo di nuvola a turbarne il colore cristallino.
    Avevamo speso il pomeriggio fuori città con Shisui, mentre cercavo ancora di realizzare appieno di avere un bellissimo figlio con l'unica ragazza che – ne ero certo – avrei potuto amare per il resto della mia vita. A questo pensiero mi detti dello sdolcinato, ma era così, innegabilmente: l'allegria, la malizia, l'entusiasmo e la dolcezza di Elisa non potevano che farmi innamorare sempre più di lei.

    Ormai era sera ed io ed Elisa camminavamo poco fuori Tanzaku, da soli: Marco e Shisui avrebbero passato la notte da una vecchia signora che avevamo incontrato al mercato, la quale conosceva bene la sorella del ragazzo e l'aveva molto a cuore. Quando seppe che quell'uomo era tornato aveva subito proposto ai due giovani di pernottare da lei, concedendoci qualche momento di intimità. L'avevamo ringraziata con un sorriso che aveva ricambiato apertamente.
    In quel momento discutevamo di ciò che era accaduto in quel lungo anno, stesi sul manto erboso della radura nella quale avevamo fatto l'amore tempo prima. Non sapevamo come vi fossimo giunti, probabilmente eravamo stati guidati dall'inconscio. La volta celeste era trapunta di stelle, più luminose che mai, la luna tinteggiava tutto di luce perlata.
    «Perché rubasti le mele, quella volta?», chiesi ad un certo punto, voltandomi verso di lei, che restò in silenzio per qualche attimo, scoppiando poi a ridere.
    «Ahah, è vero!», ricordò ilare, scuotendo la testa. «Un mercante era stato disonesto ed il resto è venuto di conseguenza. Comunque alla fine si è sistemato tutto, ma non era quel che si dice un “periodo d'oro” per il denaro … ».
    Kami, ora mi sentivo in colpa.
    «Eli, io … ».
    Lei si voltò verso di me, posandomi un dito sulle labbra. I suoi occhi brillavano di affetto e buonumore.
    «Ssh, Itachi … ». Sorrise. «Non devi preoccuparti, va tutto bene. Io, Shisui e Marco siamo stati bene».
    La guardavo incerto, le sopracciglia corrugate che si rilassarono quando spostò il dito alla radice del naso, sciogliendo le rughe d'espressione che si erano create per il rimorso.
    «È tutto ok», ripeté. «Più che ok».
    Un altro sorriso e si sporse verso si me, baciandomi. Risposi subito, attirandola a me mentre le nostre lingue si incontravano di nuovo e cominciavano a rincorrersi senza fretta. Le accarezzavo i fianchi, cullandola lentamente ed in quel bacio sentivo tutta la nostalgia, il dolore e ora la gioia che aveva provato a causa mia.
    «Mi sei mancato, Itachi. Non immagini quanto», sussurrò guardandomi negli occhi.
    «Anche tu», confessai sincero. «Mi dispiace».
    Un altro bacio.
    Poi si mise a sedere passandosi una mano ne capelli schiacciati per ravvivarli.
    «Dai, torniamo al villaggio, è tardi».
    Annuii e mi tirai in piedi, porgendole la mano ed aiutandola ad alzarsi. Sistemò di nuovo il vestito leggero, mi prese per mano e ci incamminammo verso Tanzaku.

    Una volta giunti a casa sua ed accese le luci, rimasi piacevolmente sorpreso di verificare che l'interno era molto simile a come me l'ero immaginato quando l'aveva vista dall'esterno: piccolo ed accogliente.
    Elisa si diresse subito verso il bagno, dichiarando di aver bisogno di una doccia, idea cui mi dissi d'accordo, seguendola attraverso il salotto.
    Prima di varcare la soglia però vidi nello specchio sopra il lavandino il suo riflesso: si stava svestendo lentamente e sinuosamente, le braccia allungate verso l'alto. L'abito le scorse sulla pelle, sopra la schiena, superò la testa e finì per terra. Le mutandine erano già state tolte, il reggiseno assente come suo solito. Ero così preso ad osservare la sensualità di quei gesti che realizzai solo in un secondo momento dell'effetto che avevano provocato sul mio corpo. Ignorai il fastidio e, spogliatomi a mia volta, la raggiunsi, cingendole la vita da dietro. Lui mi guardò dalla superficie riflettente per poi girarsi: mi accarezzò il viso delicatamente e sollevandosi in punta di piedi mi sfiorò le labbra, leggera, un contatto lievissimo che mi fece rabbrividire mentre una scarica elettrica mi percorse la spina dorsale. Presomi per mano, mi trascinò nella doccia ed aprì il getto dell'acqua: in un attimo eravamo già bagnati, i capelli lucidi attaccati al viso e alla pelle imperlata di gocce.
    Presi in mano una spugna e, imbibitola di bagnoschiuma, presi a frizionarle la schiena con movimenti ritmici, circolari e delicati; aveva scostato la chioma umida sulla spalla, mettendo in mostra quella carne liscia e flessuosa e di tanto in tanto la sentivo sospirare.
    Quando ritenni di aver terminato lasciai la spugna e mi sporsi verso il suo orecchio, leccandole lascivamente il guscio: «Ho finito».
    Prima che potessi aggiungere altro si era voltata e mi aveva baciato, strofinandosi contro di me ed allacciandomi le braccia al collo. Non rifiutai quelle labbra soffici, assaporandole con gusto, mentre con le mani scendevano fino alle cosce morbide che afferrai saldamente per poi sollevarla. Intrecciò le gambe ai miei fianchi continuando a mordicchiarmi la bocca ed incontrando la mia lingua, famelica, mentre il mio membro si induriva ulteriormente a contatto con la sua femminilità. Le morsicavo le labbra, le leccavo e di nuovo quei muscoli vogliosi ed bagnati ripresero a danzare con sincronia e passione, i respiri pesanti che passavano da una bocca all'altra.
    Quando poi fummo costretti e riprendere fiato, scesi con le labbra sul suo collo, affondando i denti nell'epidermide morbida, mentre lei reclinava la testa all'indietro e gemeva di piacere.

    Passai sulla giugulare, sul seno, fino a prendere fra le labbra un capezzolo, già turgido, per succhiarlo e stuzzicarlo. Sfiorare quella piccola protuberanza con la punta della lingua mi eccitava incredibilmente, ed Elisa continuava ad ansimare, pronunciando sconnessamente il mio nome.
    Poi mi spostai sull'altro, ed intorno a me udivo solo lo scrosciare dell'acqua e gli ansimi di lei.
    Avrei voluto scendere ancora, ma tenendola in braccio non mi era possibile, quindi tornai a baciarla con foga, desiderando solo di prenderla subito, ascoltare la sua voce lussuriosa e sentirla mia, di nuovo. Le mie mani si spostarono dalle cosce alle natiche, che cominciai a palpare con vigore. Un altro gemito le sfuggì dalla bocca, facendole scostare le labbra dalle mie, consentendomi di mordicchiarle il mento ed il profilo delicato della mascella, fino a lambire il lobo tenero e lapparlo con calma insopportabile.
    «Itachi … ».
    Sentirmi chiamare in modo tanto licenzioso mi faceva perdere la testa. Le lasciai le gambe e lei tornò in piedi, fiondandosi subito su di me, insaziabile, mentre le mani mi accarezzavano il corpo, esplorandone ogni minima parte, veloci e leggere. Avevo i brividi, brividi di piacere. La sentii sogghignare nel bacio al mio fremere, ma non mi privai del suo sapore, baciandola a bocca aperta mentre le sue dita scivolavano sul mio addome ed infine pervennero alla mia asta tesissima, lucida per l'eccitazione e per l'acqua scrosciante. Al sentire quel tocco sul mio pene non ce la feci più a trattenere il piacere e gettai la testa all'indietro, ansimando forte.
    «Aah … Eli … sah … ».
    Le sue labbra si erano spostate sul mio collo e lo succhiavano lascivamente, le mani percorrevano il mio membro e lo masturbavano con movimenti ora lenti, ora più rapidi, contro i quali mi spingevo voluttuosamente. La goduria aumentò in modo esponenziale finché non esplosi, venendo abbondantemente; tuttavia non terminai neppure di sospirare che la sua bocca aveva intrapreso un viaggio dalla giugulare al mio petto, tormentando un capezzolo, il pollice vellutato che stuzzicava l'altro, ma rimase lì per poco, desiderosa di raggiungere zone più in basso.
    Infine il suo viso arrivò alla mia virilità, sporca della mia stessa essenza, e la lappò impudicamente, dalla punta alla base.

    «Aaaaah … ». Un lungo gemito affatto trattenuto di enorme goduria mi fuoriuscì dalle labbra – secche nonostante l'acqua che scorreva inarrestabile – e portai istintivamente le mani nei suoi capelli umidi. Cominciò a ripulirmi e sotto quei tocchi mi indurivo sempre di più; la sua bocca calda aveva accolto tutta la mia lunghezza e aveva iniziato a pompare, mentre con la lingua accarezzava la pelle tirata e succhiava col palato e con le guance, la mano che massaggiava i miei testicoli nuovamente gonfi. Sicuramente avrei avuto mal di gola il giorno dopo, da quanto stavo ansimando, e spingevo inconsciamente quella testa verso il mio cazzo, senza che lei si ritirasse, anzi, mi cinse la vita per aiutarsi ad riceverne sempre di più.
    Non aveva smesso un secondo di guardarmi negli occhi, il che rendeva il tutto ancora più tremendamente eccitante: vedevo quelle iridi chiare appannate dal piacere e la mia mente non poteva che annullarsi, concentrandosi solo sulla lussuria e su quell'abile bocca che mi viziava senza sosta. Ero vicinissimo al punto di non ritorno, un'altra volta.
    «Elisa … basta … », ansimai allo stremo, tirandole appena i capelli per farla scostare.
    Lei si separò lentamente, succhiando sempre più piano, accogliendo via via meno carne, fino ad avere tra le labbra solo la punta arrossata, che lasciò solo dopo un'ultima, licenziosa lappata.
    Mentre si allontanava dalla mai virilità, si inclinò all'indietro e non ebbi difficoltà a farla sedere sul pavimento scivoloso del box doccia, accomodandomi tra le sue gambe aperte. Un paio di dita andarono a stuzzicarle alternativamente il clitoride e violarle l'apertura, frattanto che mi riappropriavo delle sue labbra e della sua lingua, calde ed invitanti, i suoi gemiti soffocati nella mia bocca.
    «Itachi … », farfugliò, la voce arrocata dal libido. «Fallo adesso … !».
    Il tono bisognoso non mi sfuggì e in un istante tolsi le dita, penetrandola in un colpo solo.
    Reclinò la testa all'indietro, il fiato mozzato, aggrappandosi alle mie spalle ed artigliandole con le unghie, mentre quel calore e quella strettezza mi mandavano scariche di eccitazione così forti che temevo di venire solo stando dentro di lei.
    «Muoviti», miagolò vogliosa, e non me lo feci ripetere due volte, cominciando a spingermi in lei, uscire e rientrare con ancora più forza.
    I nostri stessi ansimi ci stordivano, trasportandoci in un mondo surreale fatto solo di noi e di lussuria.
    Elisa allargò le gambe, permettendomi di muovermi con maggior fluidità, mentre con una mano la sorreggevo e con l'altra facevo leva per terra, i nostri bacini che si muovevano all'unisono.

    I sospiri ci impedivano di ricongiungere le labbra e non potevamo far altro che legare ancora le nostre lingue, mai sazie l'una dell'altra. L'aria era satura di gemiti profondi, soffocati ed urlati, e del suono dell'acqua scrosciante.
    Il ritmo delle spinte divenne sempre più frenetico, lo spazio ristretto mi costringeva a cambiare spesso posizione e ad un certo punto mi giunse alle orecchie un urlo di piacere più acuto e lascivo dei precedenti.
    «Dio, Itachi … aaaaah! … ». Il suo volto era arrossato per il libido, gli occhi liquidi.
    Ricercai quel punto in lei che le aveva provocato quella reazione, ritrovandolo immediatamente, e la penetrai di nuovo, ansimando senza sosta.
    «Sì … Itachi … sì … ».
    Non capivo più nulla, sapevo solo che sarei venuto nel giro di niente, ma non riuscivo a scostarmi, le sue gambe mi tenevano ancorato a lei.
    E poi, prima che ebbi terminato di preoccuparmi, mi liberai con un orgasmo prorompente, mentre sentivo che anche lei raggiungeva l'apice del piacere, i suoi fluidi che si mischiavano all'acqua e ai miei. Ci svuotammo insieme, sopraffatti da quelle sensazioni fortissime, gemendo i nostri nomi che si confusero tra le grida di goduria.
    Infine, crollai esausto, cercando un briciolo di forze per non caderle addosso ed abbandonare il suo calore. Ce la feci ed una volta riuscito, le sedetti accanto, il respiro mozzato, il cuore pulsante ad un ritmo irregolare ed accelerato, e la attirai a me, la tua testa sul mio petto, le sue braccia intrecciate alla mia vita.
    Rimanemmo abbracciati, cercando di stemperare la stanchezza, ma assaporando ogni istante del rapporto appena vissuto.
    «Koishiteru (15)», disse poi sollevando lo sguardo ed incatenandolo al mio, la voce cullante e sicura, totalmente sincera. Sorrise dolcemente e baciai piano quelle labbra piegate all'insù.
    «Koishiteru», ripetei, guardandola negli occhi. Kami, i suoi rilucevano come gemme dalla felicità.
    Incuranti del tempo, ci lasciammo andare, rilassando i muscoli sotto l'acqua, per un tempo indeterminato, e quando sentii che si era addormentata, allungai una mano verso il rubinetto, bloccando finalmente quel flusso che ci aveva assistiti durante l'amplesso.
    Aprii la cabina della doccia e la presi in braccio, portandola in camera da letto: il futon era ancora sfatto, ve la depositai con delicatezza, rimboccandola con cura per farla asciugare. Avrei potuto farlo io, ma temevo di svegliarla. Tornai in bagno, prendendo un asciugamano, e mi frizionai il corpo e i capelli, per poi infilarmi sotto le coperte e cingendole i fianchi. Il sonno ed un meraviglioso senso di pienezza che mi riempivano totalmente, impedendomi di tenere gli occhi aperti ancora per molto, giusto il tempo di vedere le sue guance piacevolmente arrossate e l'espressione quieta.
    Con quell'immagine di lei nella mente, cedetti alle lusinghe di Morfeo, addormentandomi serenamente.


    ___うちは 一 族___


    «Ohayou (16)», fece una voce calda non appena, lentamente, schiusi le palpebre.
    Il viso delicato di lisa mi galleggiò davanti agli occhi, splendente come un raggio di sole e non potei che ricambiare il sorriso alla vista dei capelli scompigliati, del viso colorito e delle labbra ancora un po' gonfie per i baci. Riuscivo a scorgerle i numerosi succhiotti sul collo, probabilmente specchio dei miei.
    «Ohayou», risposi infine, dandole il buongiorno a modo mio.

    Un'ora dopo avevamo fatto colazione insieme a Marco, tornato poco prima, ed eravamo scesi in strada. Elisa mi teneva per mano, accarezzandone il dorso col pollice, mentre con l'altro braccio reggevo Shisui, il quale, sveglio, osservava tutto con estremo interesse, stringendo una manina paffuta alla mia maglia.
    Spesso abbassavo lo sguardo e vedevo quella corta chioma corvina, quel corpicino caldo, senza poter fare a meno di sentirmi orgoglioso e immensamente felice.


    ___うちは 一 族___



    Quella vita tranquilla proseguì per circa un mese: uscivamo con Marco ed il nostro piccolo quotidianamente per goderci il sole sulla pelle, per farlo giocare, per stare semplicemente insieme.
    Shisui richiedeva la nostra attenzione diurna e notturna, ma non eravamo mai stanchi di accudirlo e coccolarlo per farlo chetare. Io ed Elisa dovevamo trovare il tempo per amarci, ma il pupo non era affatto un peso ed eravamo radiosi per avere una creatura così meravigliosa in comune.
    Tuttavia mi rendevo conto che in corso c'era una guerra: non potevo permettere che alla mia famiglia facessero qualcosa, né che Tobi portasse a termine il suo piano. Avevo una responsabilità da cui non potevo e non volevo sottrarmi.
    Qualche giorno prima avevo sentito alla locanda che le truppe shinobi erano impegnate contro gli implacabili Zetsu bianchi e che Madara teneva testa ai Gokage senza problemi.
    In tutto questo non potevo scordarmi di Sas'ke, né di Naruto. Mi chiesi dove fossero, se stessero bene, se il loro scontro avesse già avuto inizio. La consapevolezza di poter fare qualcosa per cambiare le sorti della battaglia e non muovere un dito era tormentosa e nauseante.

    Una sera io ed Elisa ci trovavamo in quella che ormai era la nostra radura, sdraiati come al solito sull'erba a guardare le stelle. Con il suo corpo caldo stretto al mio rimuginavo su ciò che stava accadendo e su ciò che dovevo fare. Inoltre, tenerla all'oscuro di tutto sarebbe stato impossibile e fuori luogo, ma come parlargliene senza essere brusco e senza giri di parole?
    «Elisa … », esordii sicuro, serio.
    «Sì?».
    Come potevo farle questo un'altra volta? Sospirai, e lei si voltò a guardarmi preoccupata, puntellandosi sui gomiti.
    «Cosa succede, Itachi?». Il suo sguardo si era fatto guardingo, di sicuro non presagiva nulla di buono.
    «C'è una guerra in corso», confessai, guardandola dritto negli occhi.
    Lei sgranò le palpebre, e annuì, come avesse capito tutto. Non lo esclusi, sembrava comprendermi alla perfezione o leggermi nella mente. Eravamo davvero in grande sintonia, l'uno parte dell'altra.
    «Devi andare», sentenziò infatti a bassa voce.
    Mi sentivo male, quella nota di dolore non mi era sfuggita. Feci combaciare le nostre labbra, inserendo una mano nei suoi capelli per approfondire il contatto. Le nostre lingue si cercarono subito, mentre mi davo una spinta e mi posizionavo sopra di lei.
    La baciai finché non sentii l'angoscia allontanarsi, ma non appena mi separai quel pesante macigno tornò nel mio petto. Appoggiai allora la fronte sul suo seno, stringendo i denti. Le sue dita mi sfioravano il collo, mi accarezzavano il capo con fare quasi materno.
    «Sì», risposi infine. «Devo».
    «Sei già tornato una volta, tornerai di nuovo», mi rassicurò, ma sembrava parlare più a sé stessa che a me, per convincersi che tutto sarebbe andato per il meglio.
    A quel punto sollevai la testa per guardarla: il suo viso era voltato, si mordeva le labbra, gli occhi lucidi. Era una vista straziante, non sopportavo di vederla così, soprattutto per causa mia, vista la sua irrinunciabile allegria. Le presi con delicatezza il volto tra le mani e fissai intensamente le sue iridi chiare ed appannate, mentre con i pollici le disperdevo le lacrime dalle guance.
    «Tornerò, Elisa, te lo giuro», promisi con tutta la sicurezza di cui ero capace, senza sbattere neppure le palpebre. Lei tremava ancora, ma annuì e mi baciò di nuovo, con lenta passione.
    «Koishiteru … », continuava a ripetere tra uno sfiorarsi di labbra e l'altro, finché non ci fu più bisogno di parlare.


    ___うちは 一 族___


    Avevo deciso di partire l'indomani stesso e lei si era dichiarata d'accordo, con un sospiro rassegnato.
    La mattina, una volta svegli, tornammo al villaggio di volata: mi dovevo preparare, certo, ma non potevo non abbracciare mio figlio almeno una volta.
    Marco lo stava facendo giocare nel salotto inondato di luce, anche dal portico le risate cristalline del piccolo erano ben udibili. Varcai la soglia con un groppo alla gola, salutando il mio otouto acquisito e presi subito in braccio Shisui che non appena vide me e sua madre agitò le braccia nella nostra direzione, smanioso.
    Lo strinsi forte a me, baciandogli la fronte, ed Elisa mi cinse la vita, chiudendo nostro figlio tra di noi. Non dovevo dire niente, ma solo fargli capire quanto lo amavo. Anche lui si aggrappò a noi, le manine allacciate ai nostri indici. Poi lei fece un cenno al fratello che corse subito al suo fianco, posandole il capo sul ventre e le mani ai suoi fianchi, il palmo della ragazza sulla sua spalla.
    Era per tutto questo, per Sas'ke, per Konoha che dovevo sopravvivere, tornare.
    Assaporai quanto più potei quegli istanti infiniti, pronto a conservarli nella mia mente per sempre.

    Infine giunse il momento: avevo preparato le armi col cuore in gola, indossato la corazza come al tempo degli ANBU, ma temevo comunque di non farcela. Non dubitavo delle mie capacità, ma il mio avversario era davvero molto forte. Ripensai al motivo per cui facevo tutto quello, alle persone che amavo, e riacquistai la determinazione per tornare nell'ingresso.
    Elisa mi aspettava alla porta, con Marco al suo fianco e Shisui in braccio. Ripetere che ci amavamo era superfluo: in ogni gesto o sguardo che fosse lo sentivamo entrambi, ne eravamo consapevoli, e questo ci bastava.
    «Ittekimasu (17)», salutai come l'ultima volta, accarezzandole il viso.
    Lei prese la mano tra le sue e mi guardò negli occhi, lo sguardo colmo di affetto, augurandomi buon viaggio.
    «Itterasshai».


    ___うちは 一 族___



    Sei mesi dopo, Tanzaku

    Il portone del villaggio era sempre più vicino, avanzavo sicuro verso di esso senza fretta. Sentivo di essermi tolto un peso dalle spalle, e di averlo fatto con quelle di molti altri.


    Dire che Madara era stato un osso duro era usare un eufemismo: ero ben consapevole si quanto fosse potente, a tal punto da sfidare i cinque villaggi shinobi e progettare il dominio delle terre ninja, ma non avevo pensato che possedesse anche le cellule di Shodai Hashirama Senju. Avevo calibrato e programmato ogni mossa basandomi sulle possibilità di un membro del clan particolarmente abile, ma ciò che avevo dovuto affrontare era stata una sorpresa che mi era quasi costata la vita, oltre che un occhio: utilizzare di nuovo Izanami non era nelle mie previsioni ed ancora una volta avevo dovuto uccidere un membro del mio stesso clan. Era stata una sensazione strana, come di amaro déjà-vu.
    Alla fine dello scontro ero crollato, attorno a me sentivo solo una gran confusione, le urla degli shinobi che continuavano a combattere contro gli Zetsu, i pianti disperati, e soprattutto le voci disperate dei Kage: nessuno si aspettava la mia presenza, e non bastava che avessi sconfitto il mio avo per far perdonare il mio tradimento al Villaggio. Tuttavia non era quello ciò che volevo e sapevo che per riprendermi ci sarebbe voluto parecchio tempo. Tsunade però mi aveva curato ugualmente: chiamati alcuni membri della squadra medica di supporto, aveva richiuso le mie ferite e poco alla volta riaggiustato le ossa spezzate, il polmone perforato. Avevo perso i sensi e percepivo tutto come fosse un sogno. Ogni tanto delle luci balunginavano davanti ai miei occhi, evanescenti, finché non tornavo di nuovo a dormire.

    Non so per quanto tempo rimasi privo di conoscenza, ma quando sentii la voce di Godaime chiamarmi, nonostante la testa pesantissima decisi di aprire lentamente le palpebre. Purtroppo notai con fastidio di avere una benda sull'occhio sinistro, presenza subito illustrata con una spiegazione breve, concisa ed affannata di Tsunade: recepii che avevo perso parecchio sangue e che mi ero procurato innumerevoli ferite profonde e lesioni superficiali. La cosa più importante era però che non possedevo più entrambi gli occhi di Sas'ke, ma solo uno: l'altro era di Madara.
    L'idea di avere nel mio corpo qualcosa di suo mi ripugnava, ma non dissi niente: nonostante fossi un nukenin di grado S ero stato guarito dall'Hokage in persona e tanto bastava. Sicuramente la Sannin non conosceva tutte le leggi degli Sharingan, ma doveva aver monitorato che uno dei miei occhi non fosse più utilizzabile e ritenuto che il bulbo di un membro del mio stesso clan fosse il rimpiazzo ideale.
    Quando ripresi il controllo del mio corpo mi diedi da fare il più possibile per aiutare tutti gli squadroni nei quali m'imbattevo, sfoltendo poco a poco il numero degli Zetsu ancora in vita. Ormai però ciò che dovevo fare l'avevo portato a termine e dopo settimane di sangue e lutti decisi di tornare a Tanzaku: la battaglia si avvicinava verso la propria conclusione, e con due Jinchuuriki dalla loro parte le Forze Alleate non potevano che vincere.


    Ero arrivato: aprii il portone, avanzando lungo le vie di quel piccolo villaggio pacifico e brioso, mentre il freddo vendo invernale s'inoltrava sotto i miei vestiti, facendomi rabbrividire appena.
    Ed eccomi davanti alla porta della casetta, la mia destinazione finale. Bussai trepidante e poco dopo quella si aprì, permettendomi di specchiarmi in un paio di occhi chiari e familiari, sgranati dalla sorpresa inizialmente e poi da una meravigliata felicità.
    «Itachi … », sussurrò, spalancando completamente quell'ostacolo di legno e facendomi notare che tra le braccia reggeva nostro figlio, il quale giocava coi suoi capelli castani.
    «Tadaima», feci io, per poi prenderle il viso tra le mani e baciarla dolcemente, accogliendo poi sul mio petto Shisui, che rise divertito da quell'impeto. Lo strinsi a me forte, mentre gli accarezzavo la testolina e guardavo il viso raggiante di lei.
    Dei passi lungo il corridoio mi annunciarono l'arrivo di Marco, che fece un cenno sorridente nella mia direzione.
    «Okaerinasai».
    Sì. Finalmente ero a casa.



    おわり~





    1: Itachi, aspetta!
    2: Perché, Sas'ke?
    3: Fratello, io ...
    4: E' tutto ok, Sas'ke
    5: Trovato!
    6: So che in teoria Itachi ha i propri occhi, ma come gli ho fatto spiegare, la cosa per me non funzionava. Volevo dargli gli occhi di Shisui, visto quanto erano legati, ma uno l'aveva Danzo e sinceramente mi schifava l'idea di darlo ad Itachi. Chi altri? Uno degli occhi di Obito lo ha Kakashi, quindi non potevo fare molto.
    7: Anima gemella, persona scelta dal destino cui si è destinati
    8: A presto, fratello.
    9: Grazie, Sas'ke. Alla prossima. E' un'ovvia ripresa di "Yuruse, Sas'ke. Mata konto da".
    10: Fratellino, questo è Itachi.
    11: Capisco, sorella.
    12: Ben tornato
    13: Buon Viaggio, ci vediamo
    14: Sono a casa
    15: Letteralmente significa "Ti amo", però non inteso nel senso banale di tutti: si dice solo alla persona con cui si vuole passare il resto della vita.
    16: 'giorno!
    17: Vado


    ___うちは 一 族___: clan Uchiha /Uchiha Ichizoku/
    ___ POV イタチ ___ : POV Itachi
    おわり~ : Fine /Owari/

    Link EFP nel titolo
  10. .

    THE LEGACY of UCHIHA CLAN




    Avevamo da poco superato il confine di Hi no Kuni (1) e mi era tornato un certo senso di nostalgia, ricordandomi di quando avevo dodici anni e giravo per il Paese del Fuoco per le missioni. Era un'altra vita, che non avrei mai potuto riavere. Chiusi un attimo le palpebre, con un sospiro impercettibile.
    «Nandes'ka, Itachi-san? (2)».
    Il mio compagno di viaggio interruppe solo per un attimo il filo dei miei pensieri.
    «Nanimo… (3)».
    Il viaggio proseguì.


    ___うちは 一 族 ___


    Non sapevamo neppure cosa ci facevamo nel mio paese natio, Pein non ci aveva detto nulla dopo l'ultima estrazione del bijuu ed io e Kisame avevamo continuato ad attraversare le Terre Shinobi senza una meta.
    Ormai erano le sette, ma il tramonto era ancora visibile dietro gli alberi. Le sfumature arancioni, rosse ed indaco del cielo estivo tingevano tutto il paesaggio, riflettendosi sui nostri volti. Strizzammo gli occhi e ci calammo il cappello sul viso, in modo che la luce serale non ci disturbasse.
    Poco dopo scorgemmo dei tetti all'orizzonte ed affrettammo il passo, dirigendoci verso la città.
    Nonappena varcammo l'entrata capii, con un'improvvisa stretta al petto, che ci trovavamo a Tanzaku. Konoha era solo a qualche kilometro più a est. Ero vicino a casa.
    Percorremmo qualche stradina, attenti a passare inosservati e mi chiesi ancora una volta come mai gli abitanti non si insospettivano nel vedere le cappe dell'Akatsuki. Forse non conoscevano l'organizzazione, dopotutto, non era un villaggio ninja.
    Ed eccoci davanti alla locanda. Mi piacevano quegli ambienti, sapevano di tranquillità e, soprattutto, di normalità. Io e Kisame sedemmo ad un tavolo poco in vista e una cameriera passò a prendere l'ordinazione.
    Il saké e i dango arrivarono in fretta e potemmo finalmente mettere qualcosa nello stomaco. Non era molto, ma non eravamo abituati ad ordinare Yakitori o Soba.
    Né io né lui parlammo, ascoltando invece le chiacchiere dei paesani sotto un sottile strato di fumo. Era una fortuna che viaggiassi con Hoshigaki, ero certo che, come Kakuzu, non sarei riuscito a fare coppia con un logorroico religioso qual'era Hidan. Per non parlare di Deidara, che alla prima occasione avrebbe approfittato della situazione per realizzare la sua brama della mia dipartita.

    Se non fosse per gli scopi dell'organizzazione e per le ambizioni personali saremmo anche potuti diventare amici sul serio, in un mondo ideale. Immaginavo ciò che sarebbe potuto succedere, tra un guaio combinato da uno o dall'altro Akatsuki, ma per quanto divertente fosse non riuscivo a riderne. Non ci potevo sperare.
    Terminati i dolci e gli alcolici lasciammo qualche ryo sul tavolo e ci alzammo per uscire. Scostati i teli, però, dovemmo fare un passo indietro all'istante: una ragazza ci era improvvisamente sfrecciata davanti, alle calcagna cinque o sei robusti omoni. Per terra, qualche frutto caduto nella fuga.
    Non persi un attimo: attivai lo Sharingan e sparii in cima ad uno degli edifici, Kisame avrebbe controllato da sotto. Perlustrai con lo sguardo la zona circostante finché non la individuai in un vicolo: era spalle al muro, i tizi che si avvicinavano con le spranghe in mano.
    Lei però non pareva spaventata, anzi, ghignava, come se si stesse divertendo. Poi, prima che gli inseguitori potessero fare alcunché, la ragazza rovesciò le mele che reggeva tra le braccia in un sacco di iuta abbandonato e si mise in posizione di combattimento.
    Gli omoni la schernirono, ma il suo sorriso si allargò. Prima che quello che sembrava il capo terminasse l'insulto lei gli aveva già mollato un sonoro pugno sulla mascella. Riuscii a sentire il metallico suono delle ossa spezzate anche dalla mia locazione abbastanza distante. Be', forse perché avevo le orecchie tese al massimo per captare qualsiasi cosa.
    Il gruppetto ritornò subito serio e arrabbiati si scagliarono contro di lei. I miei muscoli scattarono d'istinto, pronti a farli neri, ma con mia gran sorpresa schivò tutti gli attacchi, fece lo sgambetto ad uno, gli sfilò la spranga di mano e bastonò i due che la stavano per braccare, colpendoli giusto sulla nuca. Tramortiti, caddero a terra come l'altro compagno.
    L'aria si riempì di tensione, poi un altro sferrò un pugno nella zona presso il viso della ragazza che gli afferrò il braccio e portandosi alle sue spalle passando sotto di esso, glielo stortò. Il tizio gemette di dolore e si accasciò contro il muro.

    Era davvero brava, non ansimava nemmeno, il sorrisetto sempre al suo posto. Fece una finta e i due ceffi rimanenti scapparono via terrorizzati.
    Lei ridacchiò, si ricompose, afferrò il sacco e se lo mise in spalla, avviandosi verso lo sbocco del vicolo.
    La seguii dall'alto per tutto il tragitto, fino ad una delle casette nella periferia del villaggio. Era una costruzione che doveva ospitare al massimo due stanze e un bagno, rialzata su dei bassi pali in legno.
    La ragazza salì la breve scaletta, appoggiò il sacco sulle tavole del portico e bussò tre volte.
    La porta si aprì quasi istantaneamente, mostrando un ragazzino che doveva avere all'incirca dieci anni. Nonappena la vide gli scintillarono gli occhi e la abbracciò forte in vita.
    «Okaeri, Nee-chan!».
    Lei ricambiò il gesto d'affetto e gli scompigliò i capelli.
    Chiusi gli occhi e mi voltai di scatto, disattivando lo Sharingan. Respiravo profondamente, cercando di rilassarmi, mentre i ricordi mi affollavano la mente.


    «Niisan! Avevi promesso che mi avresti insegnato un nuovo jutsu con gli shuriken, oggi!».
    Il mio otouto mise su un broncio adorabile. Odiavo ciò che gli avrei dovuto far subire, dopo tutto l'affetto, l'ammirazione e l'invidia che trasudavano dai suoi occhi color notte.
    Mi concessi un sorriso e lo chiamai a me con la mano. Il suo sguardo si accese di entusiasmo, le labbra piegate all'insù. Si lanciò verso di me, pronto ad abbracciarmi, ma prima che mi raggiungesse lo colpii in fronte con due dita, lasciandolo di sasso, ma senza abbandonare il sorriso.
    «Yuruse, Sas'ke. Mata konto da».



    All'improvviso sentii una mano toccarmi la spalla, ma non sussultai.
    «Itachi-san, Daijoubu ka? (4)».
    Annuii senza guardarlo.
    «Fermiamoci qui per la notte. Sono stanco».
    Un lieve spostamento d'aria mi fece capire che aveva fatto un cenno d'assenso.
    «Va bene».


    ___うちは 一 族 ___


    Il mattino dopo mi svegliai col sorgere del sole. Strizzai gli occhi, mettendomi lentamente a sedere, cercando di rendere la stanza meno sfocata, ma senza riuscirci. La mia vista stava peggiorando.
    “Kuso”
    Mi guardai intorno, ma di Kisame non c'era traccia, apparte un foglietto in cima al suo futon ripiegato.

    Samehada aveva fame. Quando vuoi riprendere
    il viaggio vienimi a cercare verso ovest.


    Non mi andava giù che Hoshigaki andasse in giro ad uccidere persone per nutrire la sua spada, ma non potevo farci nulla. Dopotutto, non potevo neppure permettermi di contestarlo, visto che io avevo fatto molto di peggio.
    Abbandonai quel pensiero sconclusionato con un sospiro e mi stiracchiai, alzandomi in piedi.
    Mi rivestii, ripiegai il futon e scesi nella hall, pagando per la notte e ringraziando per l'ospitalità.
    «Mata irasshai (5)», mi sentii dire prima di uscire.

    Per strada c'era già qualcuno, pur essendo presto. Non sapevo cosa fare, perciò girai a vuoto, cercando di non farmi venire in mente pensieri spiacevoli, tenendo la mente sgombra.
    Senza che me ne accorgessi si era fatto mezzogiorno, così mi fermai a mangiare del sushi, contando di raggiungere Kisame nel pomeriggio.
    «Gochisoo-sama deshita (6)».
    Lasciai altri ryo sul tavolo e mi avviai all'uscita di Tanzaku, di nuovo sovrappensiero, ma senza pensare davvero a qualcosa.

    SBAM!

    Stavo girando l'angolo quando mi scontrai con qualcuno proveniente dal verso opposto. Barcollai all'indietro, ma il malcapitato cadde a terra. Scossi la testa e mi voltai per scusarmi, ma quando vidi di chi si trattava mi morirono le parole in bocca.
    Era la ragazza di ieri. Non c'era dubbio. Al momento si stava rialzando sbattendosi via la polvere dai vestiti sgualciti.
    Infine, alzò gli occhi su di me. Ancora non riuscivo a parlare. Lei sorrise.
    «“Gomennasai (7), signorina. Non intendevo farla cadere. Daijoubu des'ka?”», mi prese in giro.
    La sua voce era calda, allegra e con una vena di malizia. Si accordava perfettamente col carattere che aveva mostrato il giorno prima.
    «Ti ho tolto le parole di bocca, vero?», continuò divertita, continuando a sfottermi.
    A quel punto mi indispettii, ero un Uchiha, dopotutto.
    «Ehi! Piuttosto dovevi stare attenta tu a dove mettevi i piedi».
    Rise, di una risata serena e quasi strafottente.
    «Adesso è colpa mia?».
    Mi fissò, ancora quel tono malizioso, stavolta rispecchiato anche nei suoi occhi cerulei. Le lunghe ciglia ed il viso dai tratti morbidi tradivano, senza dubbio.
    Non risposi, continuando a guardarla da sotto il cappello, il quale, un istante dopo, sparì dalla mia testa, visto che l'aveva fregato e se l'era messo sotto braccio.
    Le lanciai uno sguardo d'accusa, ma lei mi sorrise nuovamente. Quei sorrisi mi facevano quasi star male, non ne vedevo da troppo tempo, rivolti a me.
    «Scusa, mi piace guardare in faccia le persone con cui parlo».
    Mi guardò ed una scintilla attraversò le sue iridi.
    «E poi, sei anche un gran figo, sai?».
    Rise di nuovo. Mi prendeva continuamente in contropiede.
    «Mi ridaresti il cappello, per favore?!», replicai senza rispondere al complimento lusinghiero.
    Lei fece finta di pensarci su un attimo, poi riportò di nuovo l'attenzione su di me.
    «Mmh, no. Non ne ho voglia. Facciamo così: prima ti fai perdonare e poi te lo restituisco, ok?».
    E mi tese la mano.
    Incrociai ancora il suo sguardo, cercando di capire cosa volesse davvero, ma non mi andava di preoccuparmi di altro. Almeno per un po'.
    Così, riservatole un ghignetto, le strinsi la mano, scoprendo con piacere quanto fosse calda e morbida.
    «Itachi desu. Douzo yoroshiku (8)».
    Lei sorrise.
    «Sono Elisa. Felice di conoscerti, Itachi», si presentò, calcando bene sul mio nome, aggiungendovi la solita nota che avevo imparato a classificare come maliziosa.


    ___うちは 一 族 ___


    Ancora non avevo ben chiaro cosa intendesse per “farmi perdonare”, ma non vi davo più di tanto peso. Avevamo passeggiato per tutto il pomeriggio, parlato e anche cenato fuori Tanzaku con degli onigiri presi d'asporto. Era di nuovo il tramonto, giusto un po' tardi, forse. Era piacevole passare il tempo con lei, dopo mesi - no, anni – di lavoro sporco per l'organizzazione. Kisame poteva aspettare.
    “Esattamente un giorno da che l'ho vista per la prima volta”, pensai mentre frugavo nel bosco per cercarla. Non sapevo il perché ma adorava gli scherzi ed aveva insistito per giocare a nascondino nella foresta. Credevo non ci sarebbe stato nulla di esaltante, invece con mia gran sorpresa mi sentivo tranquillo come non lo ero da prima di ricevere quel dannato ordine, nove anni fa.
    Stavo attento a percepire ogni singolo suono o fruscio, ma non avevo attivato lo Sharingan. Volevo che fosse un giorno normale, senza mukenin S-rank o jinchuuriki da catturare.
    A parte le cicale che frinivano nei pressi di uno stagno, la selva era placida e quieta. La ragazza era davvero abile in certe cose. Mi stavo dirigendo verso sud, dove il bosco si riuniva alle radici delle montagne. Ci eravamo distanziati parecchio da Tanzaku e vista l'ora, l'unica fioca luce proveniva dalla luna.

    All'improvviso sentii un frusciare accanto a me. In un secondo scattai in posizione da combattimento, il kunai stretto nella mano. Scrutai le ombre, cercando di capire cosa fosse stato e alla fine uno scoiattolo uscì dal fogliame e scappò via.
    Mi rilassai, pronto a continuare la ricerca, ma mentre riponevo l'arma venni di colpo atterrato al suolo, un peso che mi teneva schiacciato a terra, il viso premuto contro il terriccio umido. L'aggressore mi teneva le braccia bloccate dietro la schiena. Mi dimenai, ma non risolsi nulla. In condizioni normali me lo sarei scrollato di dosso nel giro di niente, ma non avevo voglia di combattere.
    E poi sentii una risata familiare.
    «Ahahah, dovresti vederti, Ita-chan! Ti sei fatto fregare come un baka!».
    Era lei. Assurdo che non l'avessi percepita. Però riudirla dopo quella mezz'oretta passata a brancolare nel bosco mi fece sentire strano. Era la stessa sensazione di quando avevo dieci anni e tornavo a casa da una missione: Sas'ke mi correva incontro e mi abbracciava fortissimo, come se fossi la persona più importante della sua vita, e mi dava il bentornato con mamma e papà. In quei momenti sentivo di volere un gran bene a tutti.
    Per qualche strano motivo, con Elisa mi accadeva lo stesso. Forse era per il suo buonumore, forse perché semplicemente non mi temeva come chiunque altro, non mi odiava.

    “Arigatou”, pensai sorridendo.
    «Lo sai che hai perso, vero?», la sbeffeggiai, voltandomi per quanto possibile verso di lei. Continuavo a non vederla.
    «Non direi. Ci stavi mettendo troppo e mi stavo annoiando».
    Mi indispettii.
    «Sei molto abile a nasconderti», mi complimentai, deviando il discorso.
    «Grazie», fece lei, la voce piena di falsa modestia.
    «Pfff … », sbuffai. Lei però non sembrava intenzionata a farmi alzare.
    «Ehi, Itachi».
    Il tono era ambiato, più tranquillo e serio, ma sempre malizioso. Non riuscivo a capirne il motivo. Forse era semplicemente il suo modo di parlare, affatto intenzionale.
    «Sì?». Parlai con altrettanta calma.
    «Visto che prima ti è andata male, che ne dici se vediamo chi è il più veloce?».
    Riecco la risata allegra e rassicurante. Non mi diede nemmeno il tempo di replicare che si era alzata dalla mia schiena e si era messa a correre.
    Mi alzai di scatto e cominciai ad inseguirla, rapidissimo. La sentivo ridere, in testa teneva il mio cappello, i campanellini che tintinnavano. Saltava e schivava tronchi, cespugli e le fronde più basse con una naturalezza incredibile. Rimasi un attimo, rallentando la corsa. Lei si voltò per saggiare il distacco.
    «Ahahah, troppo lento!». Mi fece una linguaccia e proseguì.
    Mi riscossi, ghignai ed accelerai il passo.
    Ad un tratto Elisa attraversò un arco di rami e sparì dalla mia vista. Un secondo dopo li superai anch'io e mi ritrovai nello spiazzo di un laghetto. Non persi tempo a guardare il paesaggio: lei si distrasse un attimo e la agguantai in vita - la stretta un po' più forte di quanto avrei volto per via del contraccolpo – ed il copricapo cadde a terra con uno scampanellio.

    La guardai dritta negli occhi, seriamente. Le sue iridi chiare erano ipnotizzate, la bocca semidischiusa. Soffiò una folata di vento che scompigliò i capelli di entrambi. Era davvero bella. Inclinai d'istinto il volto verso di lei, spinto dal desiderio irrefrenabile di baciarla, senza curarmi delle conseguenze. Lei chiuse le palpebre, venendomi incontro.
    Kami, era una vera e propria tentazione …
    “Itachi … non fare cose di cui potresti pentirti …”
    All'ultimo secondo, quando ormai sentivo il suo fiato caldo sulle labbra, riuscii a recuperare un briciolo di lucidità e mi spostai verso il suo orecchio.
    «Ho vinto io».
    La sentii gemere e poi aprì gli occhi, contrariata.
    Mi tornò un sorrisetto ironico che sembrò rilassarla, infatti poco dopo le era già tornato il buonumore e la scintilla di malizia nello sguardo.
    «Ah, ma davvero?».
    “Cos'avrà in mente ora?”, mi domandai senza preoccuparmene realmente.
    Senza scostarsi minimamente mi posò una mano sul petto, sfiorandolo sensualmente attraverso la maglia a rete, l'altra cinse la mia e cominciò a camminare all'indietro.
    Il contatto mi stordì per un secondo, ma l'elettricità che c'era non era svanita: la sentivo attraverso la pelle, in un brivido continuo, impercettibile per lei, e la seguii ammaliato.
    Ora eravamo alla riva del lago. La luna e le stelle si riflettevano sul nero e lucido specchio d'acqua, tremolanti, mentre la cascata poco più avanti si gettava con fragore nella pozza, la schiuma che ribolliva sulla superficie.

    Riportai l'attenzione sulla ragazza e notai che osservava il paesaggio davanti a noi, sorridendo serena. Le mie labbra si piegarono all'insù d'impulso, come una calamita. Lei sorrideva, io sorridevo.
    Tornò a guardare me.
    «Ti sfido a tuffarti», esordì quasi con solennità.
    “Nani?!”
    «Ahahah, e perché?», chiesi ilare.
    «Perché no?».
    Fissai la sua espressione beffarda, per poi sbuffare in modo teatrale e mi sfilai la maglia in modo volutamente provocatorio, allungando i muscoli del busto. Nel momento in cui la stoffa mi coprì il volto attivai lo Sharingan, giusto in tempo per scorgere la voluttà sul suo viso e ghignai tra me e me.
    Terminato, la gettai a terra, slacciai i sandali, i pantaloni e guardai Elisa con un'occhiata di sufficienza, nei suoi occhi ancora un lampante desiderio.
    Mi allontanai, salii su un piccolo scoglio e mi tuffai, ritrovandomi subito nell'acqua, sorprendendomi di quanto poco ghiacciata fosse. Nuotai un po' sotto la superficie, rinfrescandomi, per poi darmi una spinta con le gambe ed infrangendola nuovamente, avvicinandomi alla riva, senza però arrivare a toccare il fondo.

    «Allora? Non vieni?», la schernii.
    «Ti piacerebbe», rimbeccò lei.
    Rise, si sfilò i pantaloncini, la maglietta leggera e sbrindellata e fece qualche passo indietro, cominciando a correre, e saltò.
    Qualche secondo in aria, uno splash, schizzi ovunque e mi raggiunse con un tuffo a bomba. Ed eccola accanto a me, ridente, tenendosi a galla.
    «Complimenti», mi congratulai allegro.
    Ci guardammo ancora, sorridendoci.
    Mi tornò in mente il pensiero che avevo formulato poco prima, il bisogno di esprimere la mia gratitudine per tutto ciò che stavo provando.
    Come se mi avesse udito, mi abbracciò. Forte. Rimasi come pietrificato, senza capire.
    «Grazie».
    Stupore. Profondo.
    «Perché?».
    Lei scosse la testa e strinse ancora di più.
    «Grazie, Itachi».
    Non seppi ma il motivo di quelle parole. In quel momento ricambiai semplicemente l'abbraccio, cingendole i fianchi sottili, accarezzandole la pelle morbida, affondando una mano nei suoi capelli umidi.
    Avrei voluto rimanere così, ma sentivo l'esigenza di fare una cosa, prima. Accontentare entrambi.
    «Eli … », la chiamai.

    Lei si tirò più su, per guardarmi in faccia e la baciai, attirandola ancor di più – per quanto possibile – a me. Muovevo le labbra con decisione, succhiandole, gustandone la morbidezza. Non sembrava che attendesse altro. Rispose al bacio con coinvolgimento, leccandomi le labbra sensualmente. Intercettai la sua lingua con la mia ed intrapresi un gioco languido ed eccitante, mentre nuotavo verso la riva. Le sue labbra erano deliziose, soffici ed invitanti e non persi un istante per saggiarle ed assaporarle quanto più potevo.
    Respirare non era necessario. Dovevamo solamente soddisfarci.
    Finalmente approdammo, senza parlare, lasciandoci andare alle emozioni. Le accarezzavo i fianchi, sentendola rabbrividire e giunsi alle mutandine, che sfilai subito, facendole sollevare le gambe. Lei seguì i miei movimenti, puntellandosi sui gomiti, permettendomi di slacciarle anche il reggiseno e dimenticarlo da qualche parte vicino a noi.
    Ad un certo punto fui costretto a riprendere fiato, così lasciai le sue labbra, sciogliendo anche l'intreccio delle lingue, ma cercando di prolungare il momento continuando a lambirne la punta.
    Scesi sul collo, succhiando avidamente, mentre le mie mani scorrevano sul suo corpo, indirizzando la loro attenzione sui capezzoli.
    La sentivo ansimare rocamente, suoni di puro piacere che non facevano che aumentare la mia eccitazione, le sue dita tra i miei capelli che mi trattenevano.

    Lasciai quel lembo di pelle morbida marcandolo visibilmente e raggiunsi i seni tondi, pieni e sodi, decisamente parecchio appetibili. Rimasi a guardarla con bramosia per poi sostituire la bocca ai polpastrelli.
    Presi un bottoncino di carne tra le labbra, mordicchiandolo di tanto in tanto, cominciando ad ondeggiare su di lei, strusciando la mia erezione contro la sua coscia, cercando di darmi sollievo.
    «Kami, Itachi … ah! … ».
    La sentii inarcarsi sotto di me e gemetti mentre mi dedicavo all'altro capezzolo.
    Eravamo avvolti dalla lussuria, desiderosi di avere sempre di più. Sentii le sue mani spostarsi lungo la mia schiena, fino a raggiungere le mie natiche e cominciando a palparle con vigore.
    Inconsciamente, sfregavo contro di lei con più vigore, tuttavia le sue mani non restarono la lungo; afferrarono il bordo dei boxer e liberarono la mia virilità, cominciando a masturbarmi.
    «Cazzo, E – li … », soffocai un gemito mentre scendevo lungo il suo ventre, le violavo l'ombelico con la punta della lingua e scendevo ancora …
    Giunto alla sua femminilità esitai un attimo, prima che mi spingesse il capo. Così cominciai a baciarla e lapparla.
    «Ita … chi … sì … ah … ».
    Non cercava nemmeno di nascondere la voce goduriosa, era la cosa più eccitante del mondo. Accordava i movimenti della mano ai miei, stringendo di più o di meno a seconda del piacere che provava.

    Più continuavamo più ci desideravamo. Le sollevai le gambe e la penetrai con la lingua.
    «Aaaah! … Oddio! Itachi! … Aaaaah … sei … ».
    Non finì la frase, un altro lungo gemito le impedì di parlare, mentre continuavo a prepararla.
    Basta, non ne potevo più. Volevo prenderla. Adesso.
    Lei però non sembrava dello stesso avviso: nonappena mi separai dalla sua intimità ribaltò le posizioni, sedendosi sulle mie cosce. Non mi diede neppure il tempo di capire ciò che stava succedendo che aveva già preso in bocca il mio membro, fino alla base, e succhiava forte.
    «Aaah … Eli …. ! … ».
    I miei propositi andarono momentaneamente a farsi benedire, mentre il mio cazzo spariva e rispuntava dalle sue labbra, e le sue dita mi torturavano i testicoli senza un attimo di tregua.
    Stavo per venire … troppo presto …
    «Aaah … Eli ... bas- … ».
    Gettai la testa all'indietro, stringendo i denti. Com'era possibile che sapesse esattamente cosa fare per portarmi alla follia?
    Alla fine decise di darmi ascolto, sollevando il capo con un ghignetto e si leccò lascivamente delle gocce pre-orgasmiche dalle labbra.
    Ogni suo gesto era atto a provocarmi. Grugnii, sentendo che mi stavo indurendo ulteriormente.
    “Va bene, è abbastanza!”
    Un colpo di reni e fu di nuovo sotto di me. Mi avvolse languidamente le gambe ai fianchi, mentre prendevo in mano il mio sesso pulsante e la posizionavo alla sua entrata.
    E poi, spinsi.

    Le nostre voci si armonizzarono in un lungo gemito di puro piacere. Sentivo il suo corpo caldissimo contro il mio, mi avvolgeva da ogni parte e l'unica cosa che volevo era insinuarmi in lei più velocemente e più a fondo possibile.
    Elisa infilzò le unghie nelle mie spalle, la percepivo contrarsi, mentre con la coda dell'occhio vidi i suoi capezzoli svettanti, l'espressione goduriosa … lo presi come un via libera, così uscii lentamente e rientrai, quasi trattenendo il respiro. Un altro ansito lungo e voglioso.
    Cominciai a stabilire un ritmo, entravo ed uscivo mentre lei mi veniva incontro, la sua voce che emetteva suoni assolutamente indecenti.
    Ero pervaso dal più rosso e puro piacere, sentivo il mio cazzo indurirsi sempre di più, volevo sempre di più …
    «Itachi! … Sì … aaah … più forte! … ».
    Le sue parole mi giunsero alle orecchie rotte e rapide come un tornado, quasi incomprensibili, ma le capii e feci convergere un po' di chakra nei fianchi – come feci a concentrami non ne avevo idea – e spinsi di nuovo.
    «Aaaah! … Dio! … », proruppe.
    Probabilmente avevo centrato un punto erogeno.
    «Aaah! Ancora … Itachi … ! … », mi incitò.
    La accontentai con un colpo più forte, la sua voce rotta dagli ansimi.
    Ad un tratto mi cinse il collo, attirandomi alla sua bocca, ingaggiando subito una lotta umida ed appassionata con la mia lingua, che morsi, succhiai ed assaporai con frenesia.
    Il bacio infiammato era rotto solo dal bisogno ricorrente di aria, sembrava che mi stesse divorando, e – allo stesso tempo – che fosse il pasto più invitante del mondo.
    Cominciai a sentire qualcosa di umido dalle parti del pube, ma non mi fermai.
    Elisa continuava a chiamare il mio nome, che mai aveva avuto un suono tanto erotico, mai.
    «Itachi … », gemette lasciva.

    Tornò ad aggrapparsi alle mie spalle, ma anziché usarle come appiglio, mi spinse indietro, inclinandosi su un fianco. Persi l'equilibrio cadendo sulla sabbia bagnata, un moto di frustrazione mi pervase quando uscii dal suo corpo caldo. Lei ghignò, e subito, spiazzandomi, si risedette sul mio internocoscia, impalandosi e sospirando un lungo gemito, la testa gettata all'indietro. Ansimavo con lei, mentre mi cavalcava ed io le andavo incontro, per quanto possibile vista la posizione, le mani che dai fianchi scesero a palparle le natiche sode.
    Il ritmo si fece sempre più frenetico ed irregolare, eravamo assordati dai nostri rochi sospiri, la pelle madida di sudore. Sentivo l'orgasmo avvicinarsi ad una velocità incredibile, e decisi di avvertirla.
    «Eli … esci, sto … per ... ».
    Lei mi piazzò un dito sulle labbra e continuò a muoversi su di me, gemendo.
    «Vienimi … dentro … aaah! … ».
    Il dito rimase lì, così lo presi tra le labbra e cominciai a succhiare con voglia, mordicchiandolo.
    Una spinta, due, ed il piacere esplose.
    Venni in lei abbondantemente, vedevo il mio seme colare verso i testicoli, mentre anche lei si liberava con un lungo ansimo, insieme all'espressione di estremo godimento che le si dipinse in volto.
    «Aaaaah! … ».
    E poi per poco non mi crollò addosso. La presi tra le braccia, stringendola forte, protettivo, incurante del liquido viscoso ed appiccicaticcio di cui ci eravamo bagnati, posandole un bacio casto sulle labbra leggermente dischiuse.
    Il nostro respiro si sforzava di farsi più regolare, la luna e gli astri più luminosi del solito che parevano ammiccare nella nostra direzione.
    Elisa mi avviluppò una gamba tra le sue e rise piano.
    «Ti ripulirei da questo macello, ma credo che siamo entrambi esausti per un altro round».
    Capii l'allusione e ammisi che non aveva tutti i torti.
    «Itachi … sei un vero Dio del Sesso!», si complimentò con un'altra risata.
    «Modestamente … ». Mi unii al suo buonumore, felice e spossato. «Sei stata … fantastica. Scusa per la banalità, ma mi gira troppo la testa per pensare ad un aggettivo migliore. Forse hai superato gli standard del vocabolario».
    «Ahah … ma tu guarda … », commentò.
    Rimanemmo in silenzio, abbracciati ad osservare le stelle sopra di noi, finché non fummo presi dal torpore e ci addormentammo.


    ___うちは 一 族 ___


    Nonappena mi risvegliai sentii le braccia vuote. Spalancai gli occhi, allarmato, lo Sharignan attivo, e scattai a sedere. Ebbi un momentaneo giramento di testa per la repentinità dell'azione e mi ressi il capo guardandomi intorno. Alla fine la vidi seduta su uno scoglietto, intenta a mangiare qualcosa. Aveva di nuovo i vestiti addosso.
    Mi tranquillizzai e disattivai il jutsu oculare, alzandomi in piedi, e la raggiunsi.
    Sentendo i miei passi sull'erba lucida di rugiada, si girò e mi sorrise.
    «Ohayou!», e portò alla bocca una fragolina. Doveva essere andata a prenderle nel bosco prima che mi svegliassi. La osservai mentre masticava e non potei fare a meno di pensare che sarebbe stato bello svegliarsi la mattina e vedere il suo sorriso.
    «'Giorno», risposi, cingendola da dietro e dandole un bacio sul collo, lascivo, per poi risalire succhiando lievemente quella pelle dolce e morbida. Lei si voltò verso le mie labbra, ma un secondo prima che me ne appropriassi mi ficcò una fragolina sotto i denti.
    «Itadakimasu!», scherzò, dandomi un bacio a stampo prima di scostarsi, stiracchiarsi e dirigersi verso un punto alle mie spalle.
    Rimasi stupefatto, per poi ridacchiare ed ingoiare il frutto dolce, scoprendo di avere una leggera fame.
    Ne mangiai un altro paio, mentre Elisa faceva ritorno. Mi girai a guardarla e notai che reggeva in mano il cappello.

    All'istante mi si gelarono sia il sorriso che il sangue nelle vene, persino lei era diventata seria.
    Me lo mise in testa, le labbra lievemente tese all'insù, malinconiche.
    «Sei riuscito a farti perdonare».
    Il mio sguardo era allacciato al suo, sconvolto. Sapevamo entrambi cosa significava: era il momento di lasciarci. Non avevo bisogno di rifletterci per capire come mai fosse tanto difficile.
    Le presi delicatamente il volto tra le mani e la baciai con dolcezza, muovendo le labbra con calma, assaporando le sue, mentre lei ricambiava, senza approfondire.
    Quando ci separammo tornai a guardarla negli occhi.
    «Aishiteru (9)».
    Mi alzai, andando a rivestirmi con un macigno nel petto. Faceva male. Era la stessa, orrenda sensazione di quando avevo realizzato che non c'erano alternative all'ordine di Danzo. Forse appena meno terribile.
    Finito di indossare anche la cappa dell'Akatsuki, sospirai e mi voltai. Non piangeva. Mi riavvicinai a lei, sfilandomi il copricapo e lo posai sui suoi capelli.
    «Tienilo tu, questo».
    Annuì, senza sciogliere il contatto visivo. In quelle iridi chiare potevo leggere i miei stessi sentimenti.
    «Arigatou».
    Finalmente riuscivo a dirglielo. Sembrò capire e si alzò in punta di piedi per baciarmi ancora, leggera.
    «Itterasshai (10)». Abbozzò un sorriso, che ricambiai, anche se sapevamo entrambi che non ci saremo rivisti.
    Così mi voltai, pronto per raggiungere Kisame e adempiere al mio destino.


    ___うちは 一 族 ___


    Un anno dopo, Tanzaku

    «Nee-chan, credo che Shisui abbia fame», borbottò un ragazzino a quella che evidentemente era sua sorella maggiore.
    «Nh», fece quella. Prese in braccio il pupo dalla culla, posandogli un affettuoso bacio in fronte e sorridendogli.
    «Non piangere, piccolo», sussurrò dolce, asciugandogli le lacrimucce dagli occhi e portandolo al seno.
    Il bimbo succhiò avidamente, mentre la madre faceva una smorfia per la bramosia del cucciolo.
    Era un bel bambino, dagli occhi e capelli scuri come la notte, e la giovane donna lo adorava, ricordandole l'uomo che gliel'aveva donato.
    All'improvviso le venne voglia di farsi un giro in città, o anche fuori. Così, tenendolo in braccio ed indossando un ampio cappello con dei campanellini, uscì seguita dal fratello minore.
    Era una bella giornata tardo-primaverile, il visino del bebè si illuminò e sorrise divertito e raggiante.
    I tre attraversarono le strade di quel piccolo ma dinamico villaggio, salutati ogni tanto dagli altri paesani.
    «Nee-chan, vado a fare la spesa», fece il ragazzino. La sorella annuì e proseguì nella passeggiata, che la portò davvero ad uscire dalle mura, senza una meta precisa, mentre lei e il bambino si godevano il calore sulla pelle.
    Ad un certo punto, ai margini del suo campo visivo spuntò una figura che pareva diretta verso est. Anche da quella distanza i capelli scuri come la pece erano perfettamente riconoscibili, forse giusto più corti...

    Incuriosita, la donna si avvicinò abbastanza da poter scorgere degli occhi infiammati e dei tratti del viso tremendamente familiari.
    “Non può essere …”
    La giovane stentava a crederci. Senza rendersene conto aveva aumentato il passo tanto da correre.
    «Itachi!», chiamò.
    All'improvviso la figura si fermò, voltando il capo nella direzione della ragazza e in un secondo fu dietro di lei, una mano che stringeva un braccio di lei con forza.
    La donna strinse i denti per il dolore, ma non emise alcun suono.
    «Chi sei?». La voce era fredda, dura e scostante, faceva paura. Ma la ragazza non rispose, anzi, gli rivolse un'altra domanda.
    «Non sei lui, vero?». Il tono era deluso, quasi accusatorio.
    «No. Lui è … morto». L'altro lasciò la presa. Lei si girò a guardarlo attentamente. Gli occhi erano ancora rossi, inquietanti.
    «Tu sei Sas'ke», affermò con sicurezza.
    Quello assottigliò lo sguardo, sospettoso.
    «Io sono Elisa. Sono stata con tuo fratello … tempo fa», si presentò senza curarsi di essere stata troppo diretta.
    Certo, Itachi non le aveva detto nulla di sé, però l'aveva sentito parlare nel sonno. Anche troppo. Si era sentita in colpa, e avrebbe voluto aiutarlo in qualsiasi modo pur di fargli scordare l'orrore di quei ricordi, di farlo sentire più leggero e di nuovo felice. Ma non ne aveva avuto l'occasione.
    In ogni caso, le parole che Itachi aveva pronunciato nello stato di incoscienza erano state abbastanza per farle capire che era lui, quel tipo di fronte a lei, ad averne decretato la morte. Al pensarci si infervorò sentendo istintivamente un profondo odio nei confronti dell'altro, appena stemperato solamente perché gli assomigliava.
    Si sentiva tremare. In quel momento Sas'ke sembrò notare il fagotto che lei reggeva tra le braccia e parve capire. Gli occhi tornarono di un color onice imperscrutabile.
    «Ha ridato vita al clan», borbottò.

    Elisa si accigliò. Strinse per bene Shisui e mollò un pugno dritto in faccia a Sas'ke, che non aspettandoselo barcollò all'indietro, attivando nuovamente lo Sharingan.
    «STRONZO BASTARDO!», gli urlò contro lei, addolorata. Avrebbe voluto ucciderlo, ma sapeva che Itachi non avrebbe approvato. Di certo però non si sarebbe trattenuta dal picchiarlo più che poteva.
    «L'HAI AMMAZZATO TU, BRUTTO FIGLIO DI … », mollava fendenti ovunque riuscisse ad arrivare, finché Sas'ke non la fermò di nuovo.
    «Stiamo soffrendo in due», disse.
    «PER COLPA TUA!», ruggì lei, rossa di rabbia, scostandosi bruscamente dalla presa.
    Un pianto li distrasse e la donna riportò gli occhi su Shisui, abbracciandolo forte, sussurrandogli parole di conforto. Poco alla volta il piccolo si chetò ed Elisa se lo strinse al petto, per poi tornare a guardare rancorosa il ragazzo di fronte a lei.
    «Non ti perdonerò mai, neppure se è stato Itachi stesso a decide di morire per mano tua!», sibilò tagliente, senza distogliere il contatto visivo.
    Nello sguardo del suo interlocutore sembrò passare un lampo di rimorso, ma non disse niente e lei gli diede le spalle, diretta a Tanzaku.
    Sas'ke la osservò allontanarsi, per poi riprendere il cammino. Quella ragazza aveva perfettamente ragione: era stato stupido, infantile ed egoista, ma era stata la volontà di Itachi e l'aveva rispettata ed accettata.
    Ripensò a quei luridi vermi che avevano ordinato la strage degli Uchiha, coloro che stava andando a distruggere insieme al loro villaggio corrotto ed il sangue gli ribollì nelle vene.
    Ripensò a Danzo, che aveva oltraggiato il clan impossessandosi del loro Sharingan e percepì la voglia di vendetta riaccendersi dopo lo stupore per l'incontro precedente.
    Pensò che se Itachi aveva ripopolato il clan a lui non restava che farla pagare ai mandanti dell'uccisione.
    Ed infine gli soggiunse la dichiarazione che Naruto gli aveva fatto a Tetsu no Kuni (11) e capì che la sua fine non poteva che essere altrimenti.
    Così, con un sospiro storto, proseguì il viaggio, pronto ad affrontare l'amico per l'ultima volta.


    «Yuruse Sas'ke. Kore de saigo da».



    おわり~




    1: Paese del Fuoco
    2: Cosa c'è, Itachi?
    3: Niente
    4: Itachi-san, stai bene?
    5: Tornate a trovarci.
    6: Grazie per il pasto
    7: Mi perdoni
    8: Lieto di conoscerti
    9: Ti amo
    10: Buon viaggio
    11: Paese del Ferro
    うちは 一 族 : Clan Uchiha


    Link EFP nel titolo
  11. .

    SEOUL, ORE…




    Seoul, ore 19:48
    Ero appena uscita dall'aeroporto e stavo aspettando un taxi che mi portasse all'albergo. Appoggiai la valigia a terra, rilassando il braccio che chiedeva pietà.
    Un sospiro, a metà tra il malinconico e l'emozionato. Cosa ci facevo nella capitale della Corea del Sud?
    Sinceramente, era per svago: avevo deciso di visitarmi Giappone e Corea da cima a fondo, così, dopo aver esplorato ogni città de Sol Levante, mi ero spostata nella penisola più a nord.
    Lasciare Narita era stata una vera e propria sofferenza, come se avessi abbandonato una parte di me in quella terra bellissima. Però ero certa che vi sarei tornata molto presto, poco ma sicuro.
    Rassicurata, mi portai due dita alle labbra e fischiai. Un tassista di passaggio sentì ed accostò. L'uomo scese e caricò la valigia nel bagagliaio, mentre io mi accomodavo sul sedile posteriore. Il conducente quindi entrò nella vettura, chiedendomi l'indirizzo. Ricevuta la risposta quello partì, mentre sorridevo compiaciuta per essere in grado di sostenere una conversazione in una lingua complessa ed impronunciabile qual'era il coreano.
    Il viaggio fu tranquillo: osservavo le luci notturne e le strade caotiche di Seoul mentre ci avvicinavamo all'hotel. Una volta giunti a destinazione e scaricati i bagagli, ispirai profondamente. Si sentiva un'aria nuova, diversa.


    Seoul, ore 20:19
    In albergo depositai velocemente la valigia nella camera, mi diedi una rinfrescata dopo il lungo viaggio e sfrecciai di sotto, consegnando le chiavi alla reception.
    Volevo mangiare fuori, vivere la città, fare un giro per i negozi, perché no?
    Camminai per un buon quarto d'ora finché non trovai un ristorante non troppo caro. Ordinai kimchee e e mentre aspettavo che mi portassero la cena osservavo le persone nella sala, lo sgusciare dei camerieri tra i tavoli, l'arredamento del locale. Quando sentii un odore speziato riportai l'attenzione sul mio posto, un piatto rossastro e fumate davanti a me. Ringraziai e cominciai a mangiare.
    Oddio, era più piccante di quanto immaginassi! Ingoiai e bevvi subito un lungo sorso d'acqua.
    Terminato il pasto pagai ed uscii, decisa a farmi una bella passeggiata. Era davvero rilassante lasciarsi trasportare dal ritmo cittadino, leggere le coloratissime pubblicità sugli schermi giganti, ascoltare i passanti che chiacchieravano in coreano.
    Voltato l'angolo mi trovai davanti all'enorme promozione del concerto di una band che conoscevo piuttosto bene; il sorriso del leader pareva ammiccare a chiunque lo guardasse.
    Ero talmente concentrata sul poster che non mi accorsi dei passanti contromano, e ci andai a sbattere contro. Riuscii a non cadere a terra solo perché venni trattenuta dal malcapitato. Cominciai a borbottare delle scuse, concitata, per poi alzare lo sguardo.
    “Ok, adesso svengo sul serio”, pensai.
    Davanti a me trovai un'espressione sorpresa, specchio della mia, tracciata su un volto decisamente molto attraente. Restammo qualche istante a fissarci negli occhi finché un forzato colpo di tosse ci distrasse e realizzai che il bel moretto non era solo. Il biondino accanto a lui guardò l'amico interrogativo e l'altro finalmente gli illustrò la situazione.
    «Yose, ti presento Ele».
    Yoseob sembrò afferrare subito e mi sorrise smagliante, con un'espressione saputa.
    «Piacere, Yoseop», si presentò ironico, mentre ci stringevamo la mano.
    A quel punto il moretto poté sputare la domanda che pareva stesse trattenendo da quando ci eravamo incontrati.
    «Ma cosa … ?».
    Quant'era tenero!
    «Vacanze», risposi arrossendo, cercando senza riuscirci bene di sembrare sicura di me. Lui annuì, assorto. Mi stava per venire un infarto.
    «Senti, Kik, ti lascio con lei. Ci vediamo domattina alle prove, ok?».
    Ok, adesso avrei davvero voluto abbracciarlo, non fosse che pensai a Sakura-chan (1), perciò mi limitai a guardarlo con riconoscenza, mentre Kiki si dichiarava d'accordo.
    Yose ci salutò e proseguì per la sua strada, lasciandoci soli. Mi rivoltai il cervello cercando qualcosa da dire, ma non riuscivo a ragionare lucidamente. Come fece lui a buttar lì qualcosa era un mistero.
    «Quando sei arrivata?».
    «Un paio d'ore fa».
    «Sul serio?». Sembrava sorpreso. Chissà perché.
    «Già».
    Ci eravamo avvicinati inconsciamente.
    «Allora devi assolutamente vedere Seoul! E' una città davvero bellissima!».
    Era molto entusiasta.
    «Lo so, domani comincerò a girare».
    Scoppiò a ridere.
    «Come, da sola?! Senza offesa, ma ti perderesti».
    «Ehi!», parlare con lui stava diventando davvero semplice.
    «Non è per te, è solo che Seoul è davvero enorme. Ti servirebbe una guida … ».
    Una scintilla di speranza balunginò nel mio petto.
    « … Ti spiace se ti accompagno io?».
    Aveva un'espressione stupefacente in quel momento. Avrei voluto continuare ad osservare quel viso d'angelo per sempre se non avessi avuto la certezza che mi avrebbe sicuramente presa per una depravata.
    «Ne sarei felicissima!», acconsentii con un gran sorriso. Non riuscii a trattenere bene l'entusiasmo. D'altro canto anche Kiki pareva di ottimo umore, come fosse stato lui a ricevere un regalo, anziché io.
    «Nessun problema!».
    «Perfetto! Va bene se ci vediamo domani pomeriggio, dopo le prove?».
    «D'accordo. Allora fatti trovare fuori dall'edificio della K/ON Records verso le due, ok?», e mi indicò l'enorme grattacielo ad un paio di isolati più a ovest. Io annuii, senza smettere di sorridere.
    «Ora devo andare, se domattina arrivo tardi alle prove non posso garantire la mia incolumità per la nostra gita di domani».
    Ridemmo, io con un po' di malinconia.
    «Allora … a domani … ». Non volevo lasciarlo così presto.
    Non ebbi il tempo di pensare a nient'altro, perché si chinò e mi baciò una guancia.
    Parecchi istanti dopo, o forse solo il secondo successivo, separò le sue labbra morbidissime dalla mia pelle e mi guardò dolcemente.
    Non ci capivo più niente. Fluttuavo? Forse. Non lo avrei escluso.

    «Sono davvero contento di averti rivista, Ele».
    «Sì … anch'io … ».
    «A domani … ».
    Mi fece un cenno con la mano, un ultimo sorriso e si avviò.
    «Ciao … », mormorai, ancora non del tutto conscia di ciò che stava accadendo intorno a me.



    Seoul, 13:14
    Ok, ero in anticipo di un quarto d'ora. Non volevo ammetterlo, ma ero davvero nervosa. Dopo ciò che era successo ieri sera come avrei dovuto considerare quell'uscita? Era una sorta di … appuntamento?
    Dopo essere rientrata all'albergo non ero riuscita a dormire. Quando ero venuta a Seoul non mi ero concessa di sperare di incontrarlo, sarebbe stato troppo.
    Già il fatto che un paio di anni prima i B2ST avessero fatto un concerto a Milano pareva surreale, ed ancora più incredibile che io e Kiki avessimo passato i restanti due giorni del tour in giro per la città, come se ci conoscessimo da sempre. Separarsi fu davvero doloroso, sembrava passata una settimana e non pochi giorni. Invece, era trascorsa rapida come pochi secondi.
    Avevo incontrato il mio idolo, ero stata con lui come nessun'altra fan. Non potevo davvero aspettarmi di più. Per questo non avevo assorbito appieno la faccenda ed avevo finito per addormentarmi alle cinque, col risultato di un risveglio piuttosto agitato e tardivo.
    «Ehi!».
    Evitai di sussultare.
    «Ciao!». Gli ero davvero grata per aver interrotto il filo dei miei contorti pensieri. Mi sorrideva sereno, la maglietta nera a mezze maniche, aderente, non lasciava spazio all'immaginazione: i muscoli delle braccia, del torace e dell'addome erano perfettamente visibili.
    «Andiamo?».
    Feci cenno di sì e cominciammo a camminare uno affianco all'altra.
    «Allora, come sono andate le prove?».

    Passeggiammo per tutto il pomeriggio, visitando gran parte della città. I piedi non mi dolevano solo perché ero abituata a stare sui tacchi per ore senza mai sedermi. E anche se così non fosse stato, non credo l'avrei notato: Kiki era una guida fantastica: mi mostrava i templi, i musei ed imparai qualcosa anche sulla cultura … di gran lunga meglio di un depliant. Avevamo fatto un paio di break di tanto in tanto per riposarci e mangiare qualcosa.
    Erano quasi le otto quando ci accorgemmo di avere una gran fame. Insistetti molto per un posticino tranquillo, ma non riuscii a convincerlo, così dieci minuti dopo mi ritrovai seduta al tavolo di uno dei migliori ristoranti di Seoul con il ragazzo – senz'ombra di dubbio – migliore.
    Mi sarei presa a schiaffi da sola per tutta la timidezza mostrata la sera precedente e quel pomeriggio, tanto parlavamo con naturalezza. L'unica cosa invariata era il battito furioso del mio cuore.
    La serata fu perfetta e riuscii ad evitare i piatti piccanti. Restammo lì per un'oretta emmezza, lasciando poi il locale. Cominciammo a camminare verso il mio albergo, continuando a chiacchierare. Quando raggiungemmo l'hotel mi sentii amareggiata come per l'arrivederci del giorno prima.
    Non volevo lasciarlo andare, proprio non ci riuscivo.
    «Ci rivediamo domani».
    «Ok». Sperai non avesse notato la nota tormentata nella risposta. Feci per girarmi ma lui mi afferrò il mento tra due dita e mi diede un altro bacio, sull'altra guancia. Quando separò le labbra dalla mia pelle lo guardai, gli occhi accesi di buonumore ed emozione, mentre l'istante successivo mi stringeva tra quelle braccia forti e accoglienti.
    «Non essere triste … », mi sussurrò all'orecchio, con voce dolce. Sentivo il suo fiato sul collo, mi faceva venire i brividi.
    «Mi fa star male», continuò.
    “No, no, NO!”. Mi sforzai di convincermi che fosse solo un sentimento fraterno, almeno da parte sua, mentre io invece ero già cotta, totalmente pazza di lui.
    Rimanemmo abbracciati per un po'. Aveva un profumo magnifico e quell'abbraccio … il più bello di sempre.
    Poi, lentamente, cominciò ad allentare la presa, le mani però ancora unite alle mie. Sorrise.
    «Allora, ce la fai ad aspettare domani?».
    «Credo di sì», risposi con un broncio divertito che gli scatenò un piccolo riso.
    «Buonanotte».
    E lasciò anche le mie mani.
    «'Notte», ricambiai radiosa.



    Seoul, circa una settimana dopo, ore 23:04
    Il concerto era stato davvero magnifico!
    Kiki mi aveva dato i biglietti per il backstage un paio di giorni prima, scusandosi per il ritardo e per i successivi giorni dato che le prove in vista dello show avrebbero impedito di vederci. Era stato adorabile.
    C'era un caos pazzesco, il pubblico non faceva che applaudire e le fan urlare il proprio amore per ogni singolo componente della band.
    I cantanti ringraziarono e lasciarono il palcoscenico, raggiungendomi nelle quinte. Uno dopo l'altro Dong Woon, Hyun Seung, Jun Hyung e Du Jun sfilarono sotto il mio sguardo ammirato. Mi fecero un cenno e cominciarono tranquillamente a discutere tra loro. Poco dietro c'era Yose. Appena mi vide mi raggiunse allegro.
    «Allora, com'è andata?».
    «Ahah, lo so, siamo fantastici!», fece il modesto dandomi un pugnetto alla spalla. Poi con la coda dell'occhio vide l'ultimo membro del gruppo, mi fece l'occhiolino e si unì alla conversazione degli altri.
    «Mmh … non male … », risposi ironica.
    Finalmente potevo vedere Kiki dopo lo spettacolo. Mi stava venendo incontro quasi di corsa, con la maglia smanicata nera che metteva in risalto le sue braccia (“Ti prego, fa' che non sbavi!”) ed il torace perfetto. Era leggermente sudato, la sua pelle luccicava, ma il volto non dava l'impressione di essere affaticato, anzi, le sue labbra erano stirate in un sorriso meraviglioso e bianchissimo.
    Mi abbracciò di slancio, sollevandomi da terra e facendomi girare. Sentii uno strattone da qualche parte imprecisata dell'ombelico per aver sfidato la forza di gravità. Un attimo dopo ero di nuovo coi piedi per terra, e Kiki mi teneva le mani.
    «Grande concerto!», mi complimentai entusiasta.
    «Grazie», e sembrava davvero lieto che mi fosse piaciuto tanto.
    Restammo a guardarci negli occhi per qualche momento, senza pensare né dire niente. Riuscivo a specchiarmi in quelle iridi scure come la pece e calde come il fuoco di un caminetto, cercando di realizzare ciò che stava succedendo …
    «Senti … ti va di accompagnarmi a casa?».
    Annuii, senza interrompere il contatto visivo, cosa che però feci d'istinto quando si chinò a baciarmi l'angolo della bocca.
    «Andiamo, allora».
    Dopo aver salutato gli altri, uscimmo dal retro, dov'era parcheggiata – non potevo crederci – una R1 lucida come il petrolio. Rimasi a fissarla ammirata per un attimo, impietrita e con gli occhi da pazza.
    «Tutto ok?».
    «Certo, gran bella moto», sussurrai con un filo di voce, per poi accomodarmi dietro di lui, infilare il casco e stringerlo in vita per non cadere.
    Kiki inserì la chiave, girò, diede gas e prendemmo a volare per le vie della città. Era velocissimo, il ringhio del motore come quello di una pantera a caccia. Il cuore mi batteva fortissimo per l'adrenalina, chissà se riusciva a sentirlo attraverso la giacca di pelle.



    Seoul, ore 23:22
    Appena arrivati sotto il palazzo di Kiki smontammo dalla moto. Mi tolsi il casco, scuotendo i capelli schiacciati per qualche secondo. Infine, lo riappoggiai sulla sella.
    «Grazie per essere venuta», disse lui, stringendomi forte una mano, guardandomi dritta negli occhi.
    Il suo sguardo era pieno di riconoscenza, il volto splendente alla luce della luna.
    «Non c'è di che».
    Era solo una mia impressione o l'aria era diventata elettrica? Mi sentivo tremare … e Kiki era sempre più vicino …
    Gli andai incontro d'istinto e le nostre labbra si sfiorarono.
    Wow … le sue erano così … morbide, fresche, invitanti. Per nulla al monto avrei interrotto quel contatto. Era talmente dolce … gli lasciai la mano e risalii fino al suo petto, sentendo i pettorali invidiabili sotto i polpastrelli, e poi gli cinsi il collo, stringendo leggermente i ciuffi di capelli corvini della nuca tra le dita, mentre lui allacciava le braccia alla mia vita, accarezzandola piano, attirandomi a sé.
    Le emozioni che stavo provando erano indescrivibili, fortissime, sconvolgenti. Kiki prese a succhiarmi leggermente il labbro inferiore, sensualmente, per poi intrufolare la lingua nella mia bocca. La gemella le andò incontro senza esitazioni, trepidante, accarezzando la sua, assaporandola con calma …
    Era così naturale, non c'era alcun imbarazzo, ma solo un gran bisogno. E, Dio!, Kiki era così perfetto in quel momento …
    Quando la fastidiosa necessità d'aria si fece impellente ci separammo lentamente, con un leggero schiocco, per poi guardarci negli occhi un istante. Solo uno, perché non avevamo finito di saziarci l'uno dell'altra, perciò tornammo ad assaggiarci. Una delle sue mani s'infilò sotto la mia maglia, calda a contatto con la mia schiena. Rabbrividii mentre facevo aderire meglio i nostri corpi e lui mi strinse ancora, voglioso, dolce, spontaneo.

    Ci fu uno scontro di lingue, di labbra, di sguardi, finché non ci separammo di nuovo, il respiro affannoso.
    «Vieni», sussurrò rauco, prendendomi per mano.
    Con l'altra aprì velocemente il portone ed in un lampo entrammo in ascensore, premendo il pulsante del trentesimo piano.
    Mentre ci avvicinavamo all'appartamento era come se non potessimo fare a meno di baciarci. Dopo aver abbassato la maniglia dell'ingresso con il gomito, mi prese in braccio di slancio, tenendomi saldamente le cosce. Allacciai le gambe alla sua schiena e le braccia al collo, continuando a giocare con le nostre bocche.
    Un calcio e la porta si richiuse. Per tutto il tragitto fino alla camera da letto non pensai minimamente a guardarmi intorno e mi separai da lui solo quando sentii il materasso sotto di me. Realizzai che mi trovavo in una stanza quadrata dai muri bianchi. Due pareti – quelle di fronte alla porta e al letto – erano vetrate, sotto di noi la città scintillava di luci notturne.
    Era davvero bello.
    Un movimento ai margini del mio campo visivo mi fece riportare l'attenzione sul ragazzo, che mi sorrise e si chinò verso di me. Afferrai con una mano la sua maglia nera, attirandolo a me, intrappolando le sue labbra tra le mie. Lui seguì i miei movimenti, inginocchiandosi sopra di me, tenendosi in equilibrio facendo leva sulle braccia. Solo al pensiero dei suoi bicipiti flessi sentii l'eccitazione salire. Sollevai il bordo della sua canottiera scura, tirandolo più in alto che potevo. Kiki si mise un attimo a sedere, sfilandosela, per poi fare lo stesso con la mia t-shirt.
    Circondai le sue spalle muscolose, sdraiandomi, mentre facevo scorrere le mani lungo la sua pelle tesa e liscia, fino a raggiungere i suoi jeans. Spostai le dita sull'allacciatura, armeggiando col bottone e la zip mentre continuavamo a baciarci. Sentii il metallo sfilarsi dall'asola e seppi che ce l'avevo fatta. Abbassai pantaloni e boxer senza vergogna o imbarazzo, mentre Kiki imitava i miei movimenti.
    Liberatami anche del reggiseno, rimanemmo nudi, fissandoci negli occhi, vogliosi, per qualche istante, finché ancora non ricongiungemmo le labbra con calma. Poi scese sul mio collo, leccandolo e suggendolo piano, lasciandomi una scia incandescente e bagnata.
    Non avevo idea di quando avessi preso ad ansimare mentre giocavo con le sue ciocche corvine e la sua bocca scendeva, lasciando il collo per stuzzicare qualcos'altro. Passò le labbra delicate e la lingua sulle collinette dei miei seni, stringevo forte la mascella per non emettere suoni imbarazzanti. Quando però prese in bocca un capezzolo, accarezzando l'altro con la punta delle dita, non resistetti più.
    «A-ah … », non avevo mai sentito la mia voce così rauca.
    Non so per quanto tempo continuò quell'idillio, nemmeno quando invertì le labbra e la mano, o quando, abbandonati i capezzoli ormai turgidi, iniziò a giocare con il mio ombelico, penetrandolo sensualmente con la lingua. Mi inarcai sotto di lui, gemendo forte. Non riuscivo più a controllarmi, mentre con le mani mi separava e sollevava le gambe, per poi baciare dolcemente il clitoride.
    « A-ah … Ki … ki … ».
    Mioddio. Se in quel momento il godimento era tale, non riuscivo ad immaginare quanto ne avrei provato dopo.
    Sentivo il sangue concentrarsi nelle guance e nella mia intimità, il cuore che batteva furiosamente e seppi che se non volevo venire subito dovevo direzionare la bocca di Kiki altrove. Così, tirandogli leggermente i capelli, riportai il suo volto sul mio, per poi intrecciare labbra e lingue in una danza tremendamente erotica. Continuavo a tenere braccia e gambe allacciate a lui, sentivo premere il suo membro contro la mia femminilità e mi si rivoltarono gli occhi dal piacere.
    Quando ci separammo per riprendere aria, ne approfittai per soddisfare anche lui, scivolando sul copriletto fino a raggiungere la sua erezione. Sollevai appena il collo, baciando la punta, per poi circondarla con le labbra.
    «A-ah! … », sorpreso, il gemito gli morì in gola, strozzato, mentre si reggeva per non crollare sul materasso. Continuai ad accogliendo in bocca, poco alla volta, tutta la lunghezza, fin dove la mia cavità orale potesse permetterlo, raggiungendo la base con le mani, sfiorandola appena. Lo sentivo contrarsi e inizia a pompare. Succhiavo e lappavo la sua virilità d'istinto, senza essere completamente cosciente di ciò che stavo facendo. Iniziò a venirmi incontro coi fianchi, un fiume di erotici gemiti che sfuggiva alle sue labbra tentatrici. Man mano che lo stimolavo lo sentivo ingrossarsi.
    «Ah … E-Ele … sto per … », strinse i denti ma capii al volo cosa intendeva.
    Scese fino a raggiungermi, mentre mi appoggiavo sui cuscini appena rialzati, sollevando le gambe ed allacciandogliele in vita.
    Kiki portò due dita alla mia bocca. Schiusi le labbra, succhiando ad occhi chiusi e sentivo ansimi veloci da qualche parte sopra di me. Ritrasse poi le dita, facendole scorrere lungo il mio ventre fino ad arrivare alla mia entrata. Premette piano, intrufolandole con calma in me. La mia mano scattò alla mia bocca, per impedire che ne uscisse anche solo un suono di godimento o dolore che fosse, le palpebre serrate. Percepii che si era fermato, ma non feci niente. Qualche secondo dopo, che parve interminabile, mi abituai all'intrusione. Annuii e sentii le falangi affondare ancora un po'. Mugugni soffocati sbattevano contro il mio palmo, mentre il fastidio iniziale si trasformava in qualcosa di ben più piacevole. Di scatto tolsi la mano dalle labbra, ansimando in modo osceno.
    «A-adesso … ! Ah! … ».
    Le dita vennero ritirate. Gemetti vogliosa, quando l'istante successivo la punta della sua virilità si faceva strada in me.
    «Dio! … Aah! … ».

    Stringevo convulsamente gli occhi, mentre le mani torturavano la coperta.
    Kiki entrò poco per volta finché non fu tutto dentro. Il suo calore era incredibile.
    A quel punto cominciò a spingere, ritirarsi e riaffondare, mentre ansimavamo senza controllo. Lasciai il copriletto, allacciando per l'ennesima volta le braccia al suo collo, per poi baciarlo con passione. Lui rispose con altrettanto coinvolgimento, succhiando la mia lingua tra le labbra, stuzzicandomi, mentre il mio corpo si tendeva come un arco per andargli incontro.
    Ad un tratto sentii venire sfiorato un punto in me che mi fece emettere un urlo di piacere più forte degli altri.
    «A-ancora … lì … aaah!».
    Kiki uscì, spostandosi un po' per migliorare l'angolazione e riaffondò, centrando la stessa zona di prima.
    «Aaah! … Oddio! … », proruppi. Le spinte si fecero sempre più veloci ed irregolari mentre ci avvicinavamo all'orgasmo.
    «A-aaah! … Ele!».
    Sentire la sua voce così eccitata mi fece raggiungere il limite e venni, gettando la testa all'indietro, un lungo gemito che fuoriusciva dalle mie labbra. Kiki mi raggiunse con la spinta seguente, ansimando altrettanto forte. Mi sentii inondata del suo liquido caldo, prima che lasciasse il mio corpo e si sdraiasse accanto a me, stringendomi contro il suo petto favoloso. Sentivo la sua pelle leggermente sudata, il suo cuore che batteva rapidissimo, il respiro affannoso nell'orecchio.
    Poco per volta riprendemmo a respirare regolarmente, mentre le nostre palpebre si chiudevano e ci abbandonavamo al sonno.



    Seoul, mattino seguente, ore 9:03
    Sentivo il sole sul viso già da un po', ma mi ostinavo a tenere gli occhi serrati, pigramente. Quando però un raggio più prepotente si fermò sulla palpebra chiusa li aprii, infastidita.
    Per prima cosa sentii l'odore di Kiki accanto a me e strofinai il naso contro la sua spalla, come un cucciolo. Una mano gentile mi andò ad accarezzare i capelli così alzai lo sguardo finché non incontrai il suo che sorrideva sereno. Il sole giocava con la sua pelle, creando dei fantasiosi ghirigori di luce. Era perfetto anche appena sveglio.
    «Buongiorno».
    Ah, quanto avrei voluto rispondere! Ma la mattina proprio non riuscivo a parlare; mi limitai ad un sorriso forzato. Lui mi baciò le labbra con uno schiocco, per poi alzarsi a sedere. Sbadigliò, stiracchiandosi come un gatto.
    Misericordia, per poco non gli saltavo addosso alla vista di tutti quei muscoli in tensione.
    Terminato, si voltò verso di me.
    «Fame?».
    Annuii e lo seguii fuori dal letto, realizzando troppo tardi che eravamo ancora entrambi nudi. Arrossii furiosamente, guardando altrove e cercando di coprirmi. Il sorriso di Kiki si ampliò, per poi scomparire alla mia vista quando si chinò per raccogliere le mie mutandine e la sua canottiera nera. Me le lanciò, ed io le afferrai al volo, mentre lui estraeva dalla pila di vestiti abbandonati i boxer e se li infilava.
    Lo imitai, sentendo il profumo della maglietta smanicata. Mi prese la mano e mi portò in salotto.
    W-O-W!
    Sulla destra c'era un enorme divano di pelle nera con tanto di penisola e puff, su un gigantesco tappeto a moquette del medesimo colore che ospitava anche un tavolino basso in vetro. Sulla sinistra un impianto stereo con mensole e porta CD strapieni. Di fronte, una libreria a muro con ripiani vetrati. Alla destra di questa, una TV al plasma da parecchi pollici appesa al muro. Sotto, un mobiletto con i telecomandi ed un paio di consolles.
    Tutta la parete a destra del divano era un'unica grande vetrata scorrevole che dava su un balconcino.
    Probabilmente mi luccicavano gli occhi. Sentii un leggero strattone al braccio ed alzando il capo vidi l'espressione divertita di Kiki. Costrinsi le mie gambe a muoversi e lo seguii oltre il salotto. Credevo che nell'angolo verso il quale ci stavamo dirigendo ci fosse solo la porta d'ingresso, invece in una rientranza sulla sinistra spuntavano delle tendine chi chiaro legno intrecciato che precedevano la cucina.
    Era moderna, col forno alto ed una grande isola centrale che fungeva in gran parte da tavolo, tranne che per una delle estremità, dove vi erano i fornelli. Kiki mi fece cenno di accomodarmi ed io presi posto su uno degli sgabellini, mentre lui apriva una delle antine degli armadietti a muro, estraendone dei muffin al cioccolato. Ne prese uno, mentre io facevo altrettanto. Fissai il dolcetto per un attimo e poi alzai gli occhi verso di lui.
    «Ti dispiace se mangiamo di là?», finalmente parlai.
    Morivo dalla voglia di sedermi su quel fantastico divano di pelle nera e lucida, sentir scricchiolare il cuoio quando vi avrei preso posto …
    «Certo».
    La sua voce era tranquilla, rilassata.
    Tenendomi per mano mi portò nuovamente in salotto. Quando salii sul tappeto mi lasciò, mentre mi guardavo intorno trepidante, cercando di decidere dove sedermi, le nude dita dei piedi che sfregavano contro il pelo soffice della moquette.
    Arricciai le labbra, aggirai il tavolino e mi sparapanzai sulla penisola, gemendo internamente al suono che produsse il materiale quando schiacciai il cuscino.
    L'istante dopo Kiki era accanto a me, un braccio attorno alle mie spalle e la confezione di muffin in grembo. Allungai una mano, afferrando il dolcetto e lo portai alla bocca, addentandolo con gusto. Lui sorrise e cominciò a mangiare. Appoggiai il capo nella conca creata dalla sua clavicola, e lui spostò il braccio attorno alla mia vita, accarezzandola, creando degli arabeschi col pollice.
    Era davvero buono, quel muffin. SE non fosse che ero abituata a non ingozzarmi, l'avrei divorato in un lampo.
    Mentre le ultime briciole si scioglievano sulla lingua, accartocciai la cartina, depositandola nella scatola, a far compagnia alle altre.
    Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, senza alcun disagio. Poi parlai.
    «Oggi che facciamo?». Kiki rise, sentii il suo petto vibrare.
    «Veramente … », cominciò, in tono sospensivo. Mi voltai verso di lui, curiosa.
    « … A qualcosa stavo pensando … ».
    Mi prese delicatamente il mento tra due dita ed appoggiò le sue labbra sulle mie, piano. Ricambiai il bacio, sorridendo, prendendo ad assaggiarle, succhiando e leccando quella carne morbida finché la sua lingua non intercettò la mia, coinvolgendola.

    Un'altra scarica e senza smettere di baciarlo mi sedetti in braccio a lui, le mie gambe attorno al suo bacino,, le dita che gli sfioravano la nuca. Era così piacevole …
    TOC TOC!
    Kiki aggrottò le sopracciglia, ma anziché farmi alzare, infilò le mani nei miei capelli, attirandomi a sé, baciandomi con più passione.
    TOC TOC TOC!
    Mi stavo irritando. Quanta insistenza! Kiki sembrava dello stesso avviso.
    TOC TOC TOC TOC!
    Stavolta ai colpi si unì una voce infastidita.
    «Kikwang, se non apri subito sfondo la porta!».
    Allora ci separammo. Sbuffò e mi fissò leggermente colpevole, per poi farmi un cenno. Mi lazai, ritornando sulla penisola, mentre Kiki raggiungeva la porta. Questa venne spalancata e mostrò il volto corrucciato di Dong Woon, il quale superò l'amico e si fermò al centro della sala.
    Nonappena mi vide fece un sorrisetto. Ricordandomi com'ero conciata, arrossi e salutai con la mano.
    Quindi il ragazzo si rivolse all'altro.
    «Ah, ecco perché sei in ritardo per le prove!».
    Kiki sembrò realizzare ciò che stava dicendo il Dong Woon. Eppure non pareva convinto.
    «Dopo i concerti non proviamo mai, però».
    «Già. Ce l'ha detto ieri sera la casa di produzione, ma tu te n'eri già andato, così ti abbiamo mandato un messaggio ...».
    Kiki mi guardò. Il cellulare era stato completamente dimenticato. Mi raggiunse, riaccomodandosi al mio fianco, per poi fronteggiare l'amico.
    «Lei è Ele».
    La presentazione mi prese alla sprovvista. Lo guardai stupefatta, prima lui e poi Dong, che s'introdusse a sua volta.
    «Dong Woon, piacere».
    Annuii e sorrisi, ancora in imbarazzo.
    «Comunque muoviti, se non vuoi incorrere nelle ire degli altri … beh, a parte Yose … ».
    «D'accordo, arrivo. Aspettami giù».
    Il Dong Woon annuì, uscì e si richiuse la porta alle spalle. Kiki quindi si voltò verso di me.
    «Scusa», scossi la testa.
    «Tranquillo», lo rassicurai.
    Ci andammo a vestire ed una volta pronti scendemmo. I due mi diedero uno strappo in albergo (un bacio di Kiki sostituì il comune “ci vediamo più tardi”) e salii in camera.



    Seoul, una settimana dopo, ore 18:57
    Eravamo all'aeroporto. Kiki mi reggeva una delle valigie (l'altra l'avevo io). Dovevo fare il check-in e non riuscivo a dare un passo. Davanti a me c'erano i metal detector, nel mio petto un macigno pesantissimo. Stringevo convulsamente la mano di Kiki, mordendomi le labbra, e probabilmente avevo anche le sopracciglia aggrottate.
    Non ce la facevo. Non potevo lasciare Kiki, non ora! Ma la mia carriera mi aspettava. WI?! (2), i miei film, le mie serie, i miei libri … dovevo andare.
    «Ele … », sentii la stretta farsi più forte. Non era doloroso, ma sentire tanto affetto in quella presa faceva male. E parecchio.
    Feci un respiro profondo. Dov'era tutto il mio coraggio? La mia determinazione? Da qualche parte dentro di me, all'improvviso, le risentii e mi portai di fronte al ragazzo che mi affiancava. Lui mi sorrise malinconico.
    «Giuro che ci vedremo ancora», mi promise ed io annuii fiduciosa.
    Mi alzai in punta di piedi e le nostre labbra si unirono per l'ennesima volta.
    «Ciao», sussurrai.
    «Ciao».
    Lasciai la sua mano lentamente, gli sfilai l'altra valigia e mi incamminai verso le guardie, mentre ero certa che il suo sguardo fosse ancora puntato su di me.
    La lucina in cima alla struttura metallica lampeggiò di verde, ritirai i bagagli e mi girai un'ultima volta verso di lui, salutandolo con un sorriso sereno, che ricambiò.
    Quindi mi voltai e superai la curva che mi avrebbe condotta ai fingers.



    Los Angeles, un anno dopo, 20:00
    Avevo appena finito di asciugare i capelli.
    All'improvviso sentii suonare il campanello e sbuffai. Non era un po' tardi per le visite?
    Infilai la vestaglia che avevo lasciato sulla poltrona, la allacciai e mi diressi alla porta, chiedendo chi fosse. La risposta fu pronunciata in un inglese dall'accento strano.
    «Un amico».
    Pensai a Luca (3), ma mi aveva detto che quella settimana sarebbe tornato dai suoi …
    Aprii, curiosa e sospetta, solo per rimanere senza fiato.
    «Cos- … ?».
    Non mi ero accorta che stavo avendo la sua stessa reazione di quando ci eravamo incontrati a Seoul, perciò non capivo perché il suo sorriso si stesse allargando.
    «Ehi», mi salutò.
    Indietreggiai, facendolo entrare, mentre cercavo di accettare che fosse davvero lì.
    E poi mi abbracciò, così stretta che il cuore mi partì in tangente. Ricambiai appoggiando la testa sulla sua spalla, felicissima. Lui mi diede un bacio sui capelli e cominciò a cullarmi tra le braccia.

    «Bentornato», dissi, incoerente dal momento che non veniva da Los Angeles. Eppure mi venne spontaneo.
    Allentammo la presa e ci guardammo negli occhi, entrambe le paia scintillavano.
    Mi sfiorò il naso col proprio, prima di appoggiare le labbra sulle mie.


    OWARI~



    Sakura-chan (1): soprannome di un'amica della protagonista
    WI?! (2): serie inventata dalla protagonista
    Luca (3): amico della protagonista e mio

    Link alla fic EFP nel titolo
  12. .

    Galeotto fu il libro...



    TIFA NON È TIFA LOCKHEART, MA IL NOME DELLA MIA AMICA!



    «My soul corrupted by vengeance hath the endured torment to find the end of the journey in my own salvation and your eternal slumber».
    Il salotto in stile barocco era immerso nella luce rossastra del tramonto e la profonda voce del giovane uomo riempiva la stanza.
    Il libro era aperto, stretto tra le sue mani, i caratteri ed arricciati ed eleganti si stagliavano sui fogli candidi, in attesa di essere seguiti dallo sguardo attento del ragazzo.
    «Leggi ancora Genesis!», lo incitò la fanciulla accomodata nell’ampia poltrona foderata di rosso, le braccia incrociate sotto il mento, protesa in avanti, curiosa, gli occhi scuri brillanti come piccole gemme.
    L’uomo di nome Genesis si scostò elegantemente la frangia scarlatta dagli occhi e con una mano guantata voltò pagina, proclamando i successivi versi.
    «Legends shall speack of sacrifice at world’s end. The wind sails over the water’s surface. Quitely, but surely».
    Lei si protese ulteriormente in avanti, entusiasmata. Verso sera Genesis si era presentato alla sua residenza, dichiarando di aver trovato un’interessante lettura che voleva condividere con lei.
    Tifa, curiosa, aveva piacevolmente accettato di ascoltarlo recitare i versi, finendo col rimanerne incantata.
    Da più di un’ora ascoltava deliziata quella storia, impaziente di conoscerne il finale, ma ora il giovane taceva. Sollevò lo sguardo per incontrare le iridi castane di lui, ma l’altro la fissava ambiguamente.
    «Il poema termina qui», affermò pacatamente.
    Lei sgranò gli occhi, stupefatta, alzandosi in piedi.
    «Ma come! Perché?».
    «Il quinto atto non è mai stato trovato...».
    «Oh». Tifa abbassò gli occhi, tristemente. Il rosso sorrise e, avvicinandosi alla poltrona si chinò, tenendosi in equilibrio sulle punte dei piedi, sollevando il mento della ragazza e portandone lo sguardo alla sua altezza.
    «Ma sai, ho fatto delle ricerche...».
    La giovane drizzò le orecchie, sistemandosi sulla poltrona un po’ meglio.
    «... e in una grotta ho trovato il manoscritto originale...».
    Tifa sgranò gli occhi.
    «... dell’ultimo atto».

    Tifa, dimenticatasi delle buone maniere ed urlando di gioia, saltò letteralmente in braccio a Genesis, che stringendola saldamente in vita, la fece girare. La gonna dell’abito di lei disegnò un’onda sinuosa nell’aria, per poi ricaderle morbidamente attorno alle gambe.
    Un po’ ansante guardò l’altro negli occhi, i sorrisi l’uno specchio dell’altro, mentre cominciavano a percepire uno strano calore.
    I due erano amici d’infanzia ed avevano continuato a volersi bene per tanti anni. Come se non bastasse, erano innamorati l’uno dell’altra, ma nessuno si decideva a compiere il primo passo, troppo impacciati e limitati dagli ordini dei genitori.
    Ciò che maggiormente li univa era la lettura: insieme avevano consumato volumi grossi, tomi piccoli, saggi e pergamene ed amavano discuterne nel pomeriggio, quando solevano vedersi.
    E ora, grazie a quell’opera, Loveless, si erano ulteriormente avvicinati.
    Tifa vedeva il proprio riflesso negli occhi dell’altro, Genesis era affascinato da come il sole filtrato dalle tende rossicce adornava la chioma scura e la pelle lattea di lei, giocando con le onde dei boccoli, riflettendosi delicatamente sulle labbra dolci e leggermente socchiuse di lei.
    Il rosso era stordito dai battiti frenetici del suo cuore, più guardava la ragazza di fronte a lui, più provava l’impellente istinto di baciarla.
    Era ancora insicuro dei sentimenti di Tifa, ma da come lo stava guardando pareva non attendere altro neppure lei. Tuttavia, scelse di averne una conferma, e con la sua tipica galanteria le chiese: «Posso?».
    Le iridi di lei brillarono, e annuì.

    Le loro labbra si sfiorarono, tremanti, ansiose, combaciando perfettamente. Fu un contatto lieve e delicato che terminò pochi istanti dopo con uno schiocco. Tifa lo guardò, rapita e raggiante, per poi posare lo sguardo sulla bocca di lui. Continuando a tenergli le braccia al collo, si sollevò in punta di piedi e la riassaggiò, schiudendo la propria, e da quel momento non lessero più.
    Genesis si portò rapidamente la mano guantata al viso e addentando il tessuto che copriva l’indice tirò, in un gesto incredibilmente sensuale, scoprendo il palmo. Tifa lo guardava, gli occhi lucidi, incapace di attendere: si lanciò nuovamente sulle labbra del compagno mentre lui scendeva con le dita lungo i suoi fianchi, piano, mandandole brividi e cingendole la vita per attirarla a sé e prendere ad accarezzarle la schiena.
    Oh, quanto avrebbe voluto non vi fosse quell’abito ad impedirgli di saggiare pienamente quella morbidezza! I tocchi leggere ma appassionati di lei, le sue dita che gli sfioravano gentili la nuca gli piacevano da impazzire. Ansimò nel bacio, e non resistette oltre: lasciò che le mani giungessero all’allacciatura del corsetto purpureo, sciogliendone i lacci ed allargandolo. Il bustino cedette, concedendo alla ragazza un po’ di respiro mentre il tessuto ruvido, muovendosi, le sfiorava i capezzoli, eccitandola.
    «Spogliami», disse quando smisero di baciarsi per prendere fiato. Genesis calò, sfiorandole la bocca umida, lisciandole la mascella con la lingua e scivolando sul collo, suggendolo piano. Piccoli ansimi fuoriuscivano dalle labbra di lei mentre il rosso spostava le mani dalla schiena, alle natiche, alle anche della giovane e continuava a scendere, afferrando tra le mani la stoffa più liscia della gonna leggera e sollevandola, tirando l’orlo verso l’alto, rivelando poco a poco le gambe affusolate di Tifa, il ventre piatto, il seno invitante, celando per un momento il volto di lei ed infine andar a finire sulla poltrona alle spalle dei due.

    Genesis si concesse di rimirare per qualche attimo il corpo dell’amata, ammaliato: era come le Veneri delle statue classiche, liscia, perfetta, ma molto più morbida. Lei arrossì un attimo, per poi tornare a baciarlo, posandogli una mano sul petto, mentre le lingue si intrecciavano e le labbra si assaporavano ancora.
    Il rosso sentiva le viscere contrarsi, l’eccitazione cominciare a rendere sfocati i contorni della stanza, la sua crescente erezione premuta nei pantaloni. Ed ecco che le sue mani si intrecciavano alla chioma di lei e schiudeva le labbra, sentendo il suo fiato caldo sulla lingua che lo stordiva...
    All’improvviso Tifa si scostò, voltandosi di spalle e spostandosi verso il baldacchino. Genesis ingoiò a vuoto mentre il suo sguardo si posava predatorio sulla curva sinuosa della colonna vertebrale, scivolando poi sulle rotondità sottostanti. La voglia di toccarle, morderle non faceva che aumentare...
    Quando poi si voltò di un quarto verso di lui, chiamandolo col dito ed adagiandosi sulle candide coltri dell’enorme letto, Genesis si stava già sfilando i lunghi stivali lucidi, slacciando il gilet ricamato ed avanzò verso il giaciglio, la camicia fuori dalla cinta, semi aperta, i pantaloni slacciati. Si appoggiò con la mano ed il ginocchio sul materasso e facendo leva sulle braccia si sdraiò sulla ragazza che divaricò istintivamente le gambe. Il rosso tremò: divorava con gli occhi quel corpo invitante, quasi incredulo di poterlo finalmente ammirare, sfiorare, possedere.

    «Sei meravigliosa», confessò ammaliato prendendo ad accarezzarle le spalle, la clavicola, il seno. Tifa si sentiva completamente rilassata, ammansita dalle dita leggermente ruvide di Genesis. E poi la bocca famelica del giovane andò con un sospiro a sostituirsi alle mani, il respirò gli uscì tremante dalle labbra, quasi incredulo alla vista delle soffici colline che sorgevano dal petto di lei, dei capezzoli eretti più scuri, e lingua e labbra poterono saggiare quelle morbidezze.
    E quanto più delicate erano! Genesis le assaporava quasi con venerazione, sentiva il membro indurirsi sempre più quando la lingua passava sui piccoli bottoncini di pelle, mentre con l’altra mano accarezzava il seno scoperto, per poi invertire i ruoli.
    Tifa era quasi divertita dalle sue reazioni: la intenerivano, la facevano sorridere mentre lo guardava e giocava con i suoi capelli.
    Poi il rosso prese a scendere e la ragazza si lasciò andare ad ansimi più profondi, mentre il pensiero di ciò che stava per accadere le mandava scariche che adrenalina, ed inclinò leggermente il capo all’indietro.
    La lingua curiosa di Genesis le lisciò il ventre, si insinuò nell’ombelico, accompagnando le cortesie con lo stuzzicamento del clitoride.
    «Nnh!», soffocò lei, sorpresa. Non si aspettava che sarebbe stato così piacevole...
    L’indice continuò a sfiorarle quel punto estremamente sensibile, mentre la lingua non sembrava intenzionata a rimanere troppo tempo nello stesso punto e nel giro di poco tremò per il brivido provocato dal fiato caldo di lui in corrispondenza della sua entrata.
    D’un tratto si ritrovò carica di aspettativa e desiderio: se con un solo dito aveva già cominciato a bagnarsi, non osava immaginare come sarebbe stato dopo...
    Ed ecco che Genesis tentò un primo approccio: con la punta della lingua percorse tutta la femminilità di Tifa, mentre lei stringeva convulsamente le lenzuola.
    Troppo, troppo piacere...

    Il rosso si sentiva orgoglioso di aver ottenuto una reazione simile e, per nulla disturbato dagli umori dell’amata, riprovò, soffermandovisi più a lungo. Mimò una penetrazione, constatò la morbidezza incredibile della zona, per poi scostare con due dita le piccole labbra e giocandovi, succhiando il clitoride.
    «Aah!», gemette la moretta, per poi coprirsi il volto con le mani, imbarazzata.
    Genesis la guardò e con dolcezza le disse: «Non nascondere il tuo viso, è così bello...», per poi cominciare a depositarle baci sul décolleté e sul collo mentre la compagna faceva come richiesto e gli tirava le ciocche rosse per riportare la bocca di lui sulla propria.
    Di nuovo poterono godere di quell’intreccio di saliva e passione. Le labbra venivano succhiate, morse, le lingue intrappolate, trattenute, reclamate, ed i corpi si strusciavano l’uno sull’altro. Tifa infilò le mani sotto la camicia scombinata del ragazzo, sfilandogliela ed accarezzandogli il petto, stuzzicandogli i capezzoli e le dita di lui tornavano, dopo aver pizzicato e lisciato i fianchi di lei, a prepararla. Con cautela introdusse il medio nell’apertura, muovendolo piano. Tifa respirò pesantemente: non era fastidioso, solo insoddisfacente. Si sentiva così eccitata che il piacere che andava via via scuotendole il corpo non riusciva pienamente a percepirlo. Sentiva la testa girare.
    Capendo di non starle arrecando dolore, Genesis inserì un altro dito, desideroso di vedere di nuovo quell’espressione gaudente sul viso della fanciulla. La moretta respirò più affannosamente mentre medio ed anulare continuavano ad affondare il lei con movimenti circolari, piegandosi per stimolarle diverse zone.
    «Genesis...», ansimò. Lo voleva subito, in quel preciso momento, ma il rosso non aveva alcuna intenzione di farle male ed ignorando le proteste di lei aggiunse anche l’indice.
    La ragazza si ancorò alle spalle di lui, stringendole, ma non vi si soffermò troppo, le premeva altro.
    Corse fino all’allacciatura dei pantaloni del compagno, slacciandoli e liberando finalmente il membro che vi era racchiuso. Lo fissò bramosa, desiderava toccarlo, baciarlo, ma non adesso, terminando invece di spogliare il compagno, facendogli scorrere l’indumento oltre le gambe ed i piedi.

    Finalmente erano entrambi nudi, pronti a diventare l’una dell’altro. Tifa allungò una mano verso la virilità del rosso, prendendo a massaggiarla, compiacendosi del respiro corto del giovane.
    «Aah... Tifah...», gemette, il braccio gli tremò e per un attimo temette di caderle addosso, riuscendo però a riprendersi. Totalmente in balia della libidine, intontito dalla vulva umida di lei e dalle sue dita strette attorno alla propria lunghezza, si rese conto che non era in grado di resistere oltre. Prese la mano della mora, fermandogliela al lato della testa, le dita intrecciate, mentre la ragazza allacciava le cosce ai fianchi di lui, l’apertura pulsante e bramosa di essere violata che si contraeva attorno alle dita intruse.
    Il ragazzo provvide ad estrarle, conducendo all’entrata la propria erezione e guardando per un attimo la compagna negli occhi: sapevano entrambi cosa desideravano.
    Genesis spinse e per entrambi fu il paradiso.
    Tifa era talmente dilatata che non sentì dolore, solo un leggero fastidio che andò velocemente scemando, sostituito dalla pura lussuria.
    «Aaaah!... Genesis!...», ansimò, il cuore che le batteva forsennato mentre l’amante si sentiva avvolgere dal calore dell’altra.
    “Dio...”, pensò. Non sarebbe rimasto fermo, era impossibile non affondare ancora ed ancora in quel corpo bollente ed invitante. Scese a baciarle le labbra solo per un attimo, entrambi troppo presi a sospirare per impegnare la bocca in altre attività.
    Il rosso uscì, solo per rientrare velocemente in quell’antro, spingendo sempre più forte. Tifa era sconvolta dal piacere, urlava, le labbra spalancate. Cercava di coprirsi, impedirsi di mostrare la sua eccitazione con la voce, ma Genesis non aveva intenzione di permetterglielo, udire quel canto di passione lo mandava in estasi.
    Le prese quindi anche l’altro polso e lo inchiodò con delicatezza, ma tenendolo ben saldo al materasso e continuò a muovere il bacino, in un turbine di enfasi ed eccitazione.

    “Dio, Dio, Dio...”
    Era inebriante... i loro corpi che si allacciavano, si muovevano in sincrono, le voci che cantavano in perfetta armonia, i seni di lei danzanti, il membro di lui avvolto dalle carni della compagna che centrava un suo punto erogeno, il sudore sulla pelle di lui, l’impossibilità per lei di muoversi li facevano impazzire. Ansimavano i loro nomi, si incitavano, si baciavano, si leccavano, si mordevano, in un vortice di lussuria.
    Ed ecco che le spinte si facevano più veloci, gli urli più acuti, i gemiti più sospirati finché Genesis non uscì di colpo dal corpo di lei, violando il proprio bisogno. Tifa si sentì improvvisamente vuota ed insoddisfatta: l’aveva palpato quel piacere, era arrivata vicinissima al toccarlo e le era stato sottratto bruscamente. Guardò l’altro stranita ed infastidita, e vide che il rosso la fissava ardente, le sopracciglia aggrottate, le spalle che si alzavano ed abbassavano velocemente.
    «Genesis...?», chiese incerta, ma l’altro non rispose; si dondolava, concentrato su qualcosa. La mora seguì con lo sguardo il corpo di lui, accorgendosi che stringeva nervosamente il membro con una mano. Cercava di rilassare i muscoli, sbuffava pesantemente: non voleva venire.
    Tifa a quella vista s’intenerì, ma non voleva terminasse in quel modo. Gli si avvicinò, carezzandogli una guancia, guardandolo negli occhi. Un piccolo bacio.
    «Ehi...», sorrise. «Va tutto bene».
    Lui la fissò spaventato, ma quando Tifa si sporse nuovamente per baciarlo e le sue labbra risposero tremanti al contatto si arrese. Lasciò che le sue mani tornassero a godere della pelle morbida e liscia dell’amata, dei seni, dei fianchi, delle natiche, delle cosce ancora divaricate.
    La ragazza si era risdraiata, ancorando le dita alla chioma rossiccia e scombinata dell’altro e sollevò il bacino per strusciarlo contro la virilità dell’amante.
    Un sospiro, il giovane sentì la sua erezione tornare a gonfiarsi mentre Tifa giocava con i suoi capezzoli e la punta del membro sfiorava l’apertura umida di lei. La voleva baciare, e così fece: scese lungo il corpo della compagna e riassaporò quelle labbra tentatrici, leccandole, succhiandole, mordendole finché non intervenne la lingua.

    Era inebriante, il pollice andò a stuzzicare ancora una volta il clitoride, il medio e l’anulare la penetrarono lentamente, i fianchi di lei che gli andavano incontro.
    Ancora poco e Genesis venne riaccolto in lei, con una sola e fluida spinta.
    «Aaaah!». Le unghie di lei infilzarono la schiena del rosso mentre gemeva gaudente, eccitata dal sentire nuovamente il suo pene duro all’interno.
    I movimenti ripresero, energici e profondi, veloci e precisi. Le voci dei due amanti saturavano la camera.
    Frenesia. Genesis spingeva sempre più velocemente.
    «Aaah! Genesis...! Sìì!...», Tifa sentiva di star impazzendo... eccolo, eccolo! Il piacere tanto bramato, bianco, palpabile...
    Pochi altri colpi di bacino ed i loro corpi si tesero come archi, le teste all’indietro, le bocce spalancate per concedere alle urla di piacere di uscire, stordirli, eccitarli un’ultima volta. Genesis si liberò nella ragazza che al sentire il liquido caldo dell’amato in sé venne abbondantemente, torturandogli le ciocche rossicce.
    Ansanti, continuarono a stringersi mentre il giovane crollava sulla compagna, evitando di pesarle addosso. Si trovava ancora in lei, ma non provava più l’eccitazione inebriante e la passione di pochi attimi prima, solo pace e felicità: aveva fatto l’amore con Tifa, ed era stato bellissimo e perfetto. Ora si appartenevano.
    La moretta accarezzava l’amato, gli passava le dita sulla schiena, e dalle labbra di lui fuoriuscì un sospiro, mentre la abbracciava in vita, il capo appoggiato nel solco fra i seni.
    Tifa sorrideva.


    ~ ♥~ ♥~ ♥~ ♥~ ♥~ ♥~ ♥~ ♥~ ♥~ ♥~




    «Genesis!».
    La ragazza correva nel parco di villa Rhapsodos, il leggero abito primaverile di lino chiaro ondeggiante intorno a lei. Il giovane, sentendosi chiamare, sollevò lo sguardo dal grosso tomo che reggeva fra le mani e rispose al saluto.
    «Tifa, benvenuta!».
    Si alzò in piedi andandole incontro, facendo giusto in tempo a posare il volume sul tavolino li accanto prima che la fanciulla gli saltasse quasi letteralmente in braccio.
    «Stamani sono stata alla biblioteca e ho incrociato una domestica che mi ha dato questi», gli spiegò, staccandosi dall’abbraccio e porgendogli dei fogli ingialliti che prima non aveva notato. Presoli, riconobbe che si trattava delle sue ricerche su Loveless. Sgranò gli occhi e realizzò perché in villa non riusciva a trovarle. Poi gli venne un dubbio, e rivolse lo sguardo alla moretta, preoccupato.
    «Li hai letti?».
    Tifa non rispose subito, tirò leggermente in su le labbra e alla fine si decise a chiarire i dubbi del rosso.
    «No».
    Un sospiro di sollievo.
    «Perché?».
    Genesis si voltò, passando sotto le iridi l’elegante grafia di quei versi e parlò, dandole le spalle.
    «Sono anni che svolgo delle ricerche per trovare il quinto atto. Ho viaggiato ovunque, studiato moltissime lingue... e finalmente ho il manoscritto originale!», esclamò ardente, girandosi con un dolce sorriso sulle labbra.
    «Ed ora posso condividerlo con te».



    Even if the morrow is barren of promises, nothing shall forestall my return.
    To become the dew that querces the land. To spare over the seas, the skies.
    I offer thee this silent sacrifice.


    Loveless, ACT V




    おわり~

    Il link EFP è nel titolo
  13. .

    MENDO KUSE NAA...
    めんど くせ なぁ...




    "Ok, ok, non è grave ...", continuavo a ripetermi, ma non riuscivo ad autoconvincermi. Mi grattai la nuca, accigliato, guardando storto le nuvole sopra di me.
    "Che seccatura".
    Avevo quasi raggiunto casa mia, quando la porta si spalancò ed una ragazza ne uscì di corsa, i lacci del coprifronte che svolazzavano dietro di lei, le armi ed i rotoli che tintinnavano nelle tasche della giacca da jonin. Quando mi vide si voltò per metà nella mia direzione, senza fermarsi. Sorrise e mi salutà.
    «Ciao Shikaaa!».
    La sua voce lasciò una leggera eco mentre sfrecciava verso il palazzo dell'Hokage. Anche dopo che fu sparita dalla via continuai a fissare la strada, contrariato, per poi varcare la soglia di casa.

    «Tadaima!», annunciai in tono annoiato, sfilandomi i sandali prima di salire sul tatami.
    Mia madre spuntò dalla cucina, asciugandosi le mani con uno strofinaccio.
    «Okaeri!».
    Le feci un cenno e mi recai nella sala da shogi. Non avevo intenzione di stare al chiuso, così feci scorrere il pannello in carta di riso che dava sul giardino. Una folata di fresco venticello primaverile mi soffiò in volto, portandomi alle narici gli odori degli alberi. Sentivo il gorgoglio dell'acqua nel canaletto ed il ritmico "Toc!" del legno su legno.
    Mi accomodai quindi alla scacchiera e cominciai a giocare.
    Mossa dopo mossa districavo i miei pensieri aggrovigliati, ma stava risultando più difficile del previsto, ed ero frustrato. Sì, perché rendermi conto di essere innamorato della mia migliore amica mi stava facendo impazzire. Per di più, sapevo che non mi ricambiava, perché era cotta dell'Hokage da sempre, proprio come Hinata.

    «Ehi Shika!».
    Eccola di nuovo. Era adorabile.
    "Kami, mi sono proprio fottuto il cervello ..."
    «Ciao, Nel. Cosa voleva l'Hokage?».
    Lei ci pensò su un attimo.
    «Uhm ... nulla di particolare, solo che settimana prossima dovrò fare ambasceria a Suna».
    «Ah. Be', divertiti!».
    «Ma certo, Shika!», replicò lei allegra. «Ehi, andiamo da Ichiraku?».
    Risi, o meglio, sbuffai in un modo assurdo ed esasperato che ricordava una risata. Anche lei era fissata col ramen.
    «Ok, ok ... ».
    Subito mi prese per un braccio e cominciò a correre verso il suo chiosco preferito.

    «Irasshai!», ci accolse il proprietario, con un sorriso più grande del solito. Grazie a lei e all'Hokage gli affari gli andavano stupendamente.
    Nelly prese posto su uno sgabello ed io mi accomodai accanto a lei.
    «Allora … un ramen deluxe … e … », mi guardò interrogativa.
    « … miso di maiale», borbottai scocciato.
    «Arrivano subito!», e diede l'ordine alla figlia.
    Mentre i due cominciavano a cucinare, Nel inizò a parlare.
    «Allora, com'è andato il tuo primo incarico coi genin? Volevo chiedertelo oggi pomeriggio, ma ero già in ritardo!».
    «Sono delle pesti. Non so come facesse Asuma con noi», commentai.
    Rise, e la cena arrivò. Lei mangiò con gusto, mentre io non facevo molto caso a cosa stessi ingerendo. Cercavo qualcosa di cui parlare.
    «Ehi, vieni alla festa di TenTen? (1)», mi chiese all'improvviso.
    «No», replicai. Certe cose non facevano proprio per me.
    «Eddai, Shika! Tu devi venire! Non sarebbe lo stesso senza di te. Onegaiiiiii!». E mi fece gli occhi da cucciolo. Mi voltai, perché sapevo che avrei ceduto.
    «Shika … », tamburellò sulla mia spalla, pregandomi in tono persuasivo. Mi arrischiai a guardare con la coda dell'occhio.
    “Kuso!”
    «E va bene, ma piantala di fare quella faccia!», mi lamentai, mentre lei finiva il ramen tutta contenta.

    La festeggiata pescò l'ultimo biglietto, lo aprì e lo lesse trepidante. Gli occhi le brillarono di malizia.
    «Gioco della bottiglia!», annunciò solenne, scappando a prendere lo strumento malefico.
    Lanciai un'occhiataccia a Nelly e lei rispose con un occhiolino.
    TenTen si riaccomodò tra noi e lo fece ruotare. L'arma si indirizzò verso la vittima che fortunatamente non fu né Nelly né io. Applausi e fischi accoglievano ogni effusione.
    Poi toccò a Nel, che si guardò intorno con un sorrisino prima di far muovere la bottiglia. Questa vorticò velocemente, i contorni sfocati. Gli altri si scambiavano cenni d'intesa, chiedendosi a chi sarebbe toccato.
    Un ultimo tremolio e fissai scioccato il collo della bottiglia che puntava impertinente verso di me.
    Poi realizzai cosa volesse dire e guardai Nelly, che sembrava decisamente più rilassata di me.
    «Ah, beh! Facciamo questa cosa!», asserì tranquillamente, avvicinandosi a me. Potevo rifiutarmi ed infischiarmene altamente del giudizio degli altri, ma … quando mi sarebbe ricapitata l'occasione?
    Ritrovai la mia sicurezza ed inclinai il capo, mentre lei imitava i miei movimenti come uno specchio. La guardai negli occhi un attimo, prima di appoggiare delicatamente le labbra sulle sue.
    Il resto della stanza svanì.
    Sentii quei petali tremare appena e non riuscii a trattenermi. Approfondii il bacio, assaggiando lentamente le sue labbra, succhiandole appena, tracciandone il morbido contorno con la punta della lingua …
    Kami, quanto avrei voluto continuare! Attirarla a me e baciarla fino a quando il bisogno d'ossigeno non si fosse fatto impellente …
    «Ehm ehm!».
    Cazzo. Aprii gli occhi, ricordandomi improvvisamente che non eravamo soli e che (forse) ero andato un po' oltre.
    Mi separai da lei con uno schiocco, evitando di guardarla. Era già tanto se non avrebbe evitato le strade che percorrevo di solito.
    Mi alzai, borbottai un “suman” e lasciai la camera, diretto al bagno. Mi chiusi con forza la porta alle spalle, mollando un violento pugno contro lo stipite, incurante del dolore, digrignando i denti. Cercai di rilassare i muscoli e rallentare il respiro, le immagini della scena appena vissuta indelebili nella mia mente.
    Perché mi ero lasciato andare, perché?!
    Aprii il lavandino, facendo scorrere l'acqua. Affondai le mani nella cascata, riempiendole e mi sciacquai il volto accaldato.
    Mentre mi asciugavo con un panno di spugna, sentii dei colpi alla porta.
    «Shika? Tutto bene?». Era lei.
    Sospirai, non sapevo cosa rispondere.
    «Posso entrare?».
    Un altro sospiro ed abbassai la maniglia. Il suo volto era tanto dolce da mettermi a disagio. Fece un passo avanti, chiudendosi la porta alle spalle e mi appoggiò una mano sul braccio, stringendo piano.
    Incredibile come quel gesto riuscì a tranquillizzarmi. Mi rilassai e lei sorrise, gettandomi le braccia al collo.
    I suoi abbracci erano qualcosa di eccezionale, sensuale, confortante. La sua testa si appoggiava perfettamente nell'incavo tra il mio collo e la mia spalla. Sentii che mi stringeva forte, così ricambiai, avvolgendo le braccia alla sua vita e alla sua schiena, ispirando profondamente quel suo odore dolce ed inebriante.
    Dondolammo un po' sul posto, senza separarci.
    «Scusa per prima», borbottai imbarazzato, cercando di non farmi sentire. Lei si irrigidì - “Oh, merda!” - e sciolse l'abbraccio. Teneva le mani attorno al mio collo e mi guardava confusa.
    «Perché?».
    Sembrava così innocente in quel momento …
    Cedetti.
    Repentinamente, mi fiondai sulle sue labbra, avvicinandola a me, mentre cominciavo ad assaporarla con decisione. Era troppo invitante, le accarezzavo le labbra con le mie, suggendole, lisciandole con la punta della lingua.
    Per tutto il tempo lei rimase immobile, come pietrificata; allora decisi di staccarmi.
    «Ehm … ». Come giustificarlo? Forse mi aspettavo una sua reazione. Non mi spiegavo perché continuasse ad abbracciarmi.
    «Tu … mi piaci, Nel … da moltissimo tempo … », confessai infine.
    Un lampo passò nelle sue iridi chiare, ipnotizzanti, ma non riuscii ad interpretarlo.
    « … ma hai sempre avuto una cotta per Naruto e così … ». Le parole mi morirono in gola. Sembrava imbarazzata.
    «Shika, io non sono più innamorata di lui … ».
    “Eh?!”
    Probabilmente la sorpresa mi si leggeva in faccia.
    «Non è più così. Mi piace un'altra persona».
    “Kuso!”. Colpito e affondato. Chissà chi era …
    «Ah». Avrei voluto andarmene subito, e cercare di riordinare le idee.
    Nelly per tutto il tempo non aveva staccato gli occhi dai miei. Portò una mano alla mia guancia, accarezzandola, e rise piano.
    «Che baka che sei … ».
    E lentamente, dolcemente, mi baciò. Dopo lo sgomento iniziale, gemetti nel bacio e la strinsi forte. Le nostre labbra erano ansiose di scoprire e riscoprire quelle dell'altro, le mani si allacciavano ai fianchi, ai capelli, e provocavano brividi.
    Aumentai la presa, sospingendola verso la parete, mentre premevo il mio corpo sul suo e le nostre lingue si intrecciavano, dando inizio ad una danza affatto casta.
    Le sue dita strinsero il bordo della mia maglia, tirandola in un invito tremendamente allettante, ma mi costrinsi a rifiutarlo, separandomi di malavoglia dalle sue labbra. Mi scostai giusto un paio di centimetri, e nostri fiati si mischiavano.
    «Non … qui … », ansimai col respiro corto, cercando di formulare un pensiero coerente.
    Nelly mi guardò, gli occhi brillanti di desiderio e le schioccai un altro bacio sulle labbra ormai gonfie.
    Aprii la porta del bagno, e stringendo forte la sua mano, la trascinai fuori dalla casa di TenTen. In un secondo eravamo per le vie di Konoha.

    Dove andare?
    Svoltai in una traversa, fino ad arrivare alla villa dei Nara. Ci sfilammo distrattamente del scarpe e salimmo nel porticato, girandovi attorno fino ad arrivare dall'altro lato, nel giardino posteriore. Aprii una porta in carta di riso ed entrai nella stanza, con Nelly subito dietro di me.
    Era camera mia, c'era ancora il futon a terra, visto che per la pigrizia non l'avevo ritirato. Lei si sedette e mi trascinò giù, impossessandosi delle mie labbra.
    Era praticamente un sogno, la luce del tramonto illuminava l'ambiente donando alle nostre pelli una tonalità aranciata.
    Portai le mani ad accarezzare le spalle, la schiena, fino a giungere al bordo della maglia. Alzò le braccia e gliela sfilai, liberandomi subito anche della mia. Le slegai il coprifronte, lanciandoglielo da parte e mi presi un attimo per squadrarla: era semplicemente perfetta, il suo corpo armonioso, tutte le curve al posto giusto. La feci sdraiare sul materasso del futon, mentre slacciavo i pantaloni e li gettavo in un angolo. Tornai a baciarla ardentemente, giocando con la sua lingua, mentre le dita correvano ad accarezzare i fianchi, le braccia, la pelle morbida del seno …
    La sentii tremare, mentre con un gemito reclinava la testa all'indietro.
    Kami, quant'era eccitante, con le labbra leggermente dischiuse, le palpebre serrate e le guance in fiamme.
    Le baciai il collo, leccandolo e succhiandolo, il suo corpo che si contorceva sensualmente, mentre il fastidio che avevo tra le gambe da un pezzo diventava insopportabile.
    Le mie mani lasciarono il seno, lisciando l'addome e fino a sfilare impudemente i fuseaux della tenuta e l'intimo, cui seguirono i miei boxer.
    Mi sfregai contro di lei, soffocando un gemito contro la sua pelle, mentre cercavo di rilassare i nervi. Nelly aprì le gambe d'istinto, venendo incontro ai miei movimenti e la sua bocca emise i suoni più erotici che avessi mai sentito.
    «A-ah … ! … Shi … ka … ». Le sue dita si strinsero tra i miei capelli, la coda in cui li acconciavo mezza disfatta, e mi riattirò a sé.
    Assaporai le sue labbra ancora e ancora, continuando a strusciare il bacino contro la sua intimità, il bacio sempre più infiammato, le nostre lingue che si rincorrevano senza sosta alcuna.

    Tornai ad accarezzarla, scendendo con le labbra fino al seno, continuando il lavoro interrotto in precedenza. Andai a contornare le forme dei capezzoli con la punta della lingua, per poi succhiarli avidamente, una sequela di ansimi fuoriusciva dalla sua bocca tentatrice.
    «Mmh … Shi .. ka … ».
    Kami Kami Kami! Come poteva esistere una creatura del genere? Cos'avevo fatto per meritarmela?
    Nelly mi tirò una ciocca, riappropriandosi delle mie labbra, mentre con l'altra mano percorreva la linea dell'addome e raggiungeva il mio internocoscia. Lo saggiò in tutta la sua lunghezza, vezzeggiandolo e non riuscii a trattenere un gemito che fuoriuscì dalle mie labbra come in un rantolo.
    Per non crollare mi tirai su, quasi a quattro zampe, facendo leva sugli avambracci, mentre le nostre labbra si cercavano succhiandosi, mordendosi … All'improvviso, Nelly strinse forte la mia virilità, iniziando a pompare dapprima piano, poi sempre più rapidamente.
    Kuso, se continuava così …
    «Aaah … Nel … basta … co – sì … », ansimai, il volto ed il torace sudati per l'eccitazione. Le sollevai una gamba liscia, che lei avvolse attorno al mio bacino insieme alla gemella. Non sembrava preoccupata per l'assenza di preparazione.
    «Kami, Shika … adesso! … », gemette, quasi in una supplica.
    Cominciai a spingermi il lei.
    «Aaaaah … », un lungo ansito di pura lussuria mi fece indurire più di quanto già non fossi, mentre le sue mani stringevano convulsamente le lenzuola e cominciavo a sentire un calore intensissimo.
    Affondai ancora, fino a metà e sul suo volto si dipinse un'espressione estasiata. Avrei voluto farla mia non so quante volte quella notte.
    Finalmente la penetrai del tutto e lei mi allacciò le braccia al collo, facendomi abbassare verso il suo volto. Tracciò il guscio dell'orecchio con la punta della lingua, prima di sussurrare un: «Muoviti».
    Non me lo feci ripetere due volte e mentre riprendevo a baciarla mi gustavo quelle labbra di cui non mi sarei mai stancato.
    Uscii e riaffondai, spingendomi con forza in lei, il suo calore bruciante come un fuoco. Spinta dopo spinta sentivo bianco, impalpabile, puro piacere danzare davanti ai miei occhi.
    Nelly veniva incontro alle mie spinte con una sincronia perfetta, era la sensazione più intensa che avessi mai provato in vita mia.
    «Aaah … Shika … ! Sto … per … », quasi urlò, un grido colmo di rossa passione.
    Un istante dopo sentii l'orgasmo esplodere e venni in lei, tremando, un gemito lungo e voglioso che non tentai neppure di bloccare.
    Infine crollai, evitando di schiacciarla tenendomi sollevato sulle braccia. I muscoli stavano per cedere, lo sentivo. Feci un ultimo sforzo, uscendo lentamente da lei e ricaddi sulle coperte morbide del futon, al suo fianco, stringendola a me. Ci guardammo negli occhi, raggianti ed ansimanti.
    «Wow», bisbigliò, un sorriso meraviglioso sulle sue labbra tumide.
    Poco a poco le palpebre si fecero pesanti e si addormentò.
    Fuori c'era la luna, il giardino era tranquillo e silenzioso, immerso nella semioscurità. La luce degli astri si rifletteva sul tatami e sul viso di Nelly, addolcendolo più di quanto già non fosse.
    Poi tutta la stanchezza accumulata si fece improvvisamente sentire e affondai il capo sul cuscino, sospirando di soddisfazione. La sentii muoversi nel sonno, accostandosi a me e tirai sui nostri corpi le coperte. La strinsi piano, senza svegliarla e poco dopo mi addormentai anch'io.
    “Già … wow”.



    OWARI ~
    おわり ~




    1: il compleanno di TenTen è il 9 Marzo


    Link EFP nel titolo
  14. .

    SLAVE





    «Kabuto».
    La voce viscida e roca dell'uomo risuonò nella stanza male illuminata, in un tono che l'interpellato con disappunto riconobbe, e si avvicinò al Sannin.
    «Orochimaru-sama», replicò, con voce altrettanto stucchevole, la luce riflessa sulle lenti del medic-ninja che rendeva la sua espressione più inquietante del solito.
    «Chiamalo». L'urgenza era più che percepibile.
    «Subito, Orochimaru-sama».
    Le labbra dell'albino si storsero in una piccola smorfia mentre si avviava lungo i corridoi del covo. Sas'ke-kun si stava allenando duramente e non s sarebbe mai fatto convocare dal suo sensei in un momento del genere. Sapeva a chi fosse riferito quell'ordine e ogni volta che gli veniva impartito non poteva che esserne contrariato. Nonostante gli fosse stato sempre fedele (eccetto quando era ancora una spia di Sasori) non gli era mai stato concesso quel privilegio, che neppure il tanto agognato Uchiha poteva vantare.
    Finalmente giunse alla cella del ragazzino. Non si curò di bussare, l'aveva di sicuro sentito arrivare, perciò inserì la chiave nella serratura e spalancò la porta.
    «Tsuitekoi (1)», ordinò il medic-ninja, ed il ragazzino si alzò svelto in piedi, pronto a seguire Kabuto.

    Se ne stava in silenzio, carico di aspettativa mentre la chioma pallida del servitore dondolava quieta davanti a sé. Non ricordava nulla che fosse accaduto prima di aver incontrato Orochimaru-sama, ma non se ne curava. A quell'uomo doveva la vita e si sarebbe sdebitato con lui in eterno, se necessario.
    Infine, giunsero alla camera del Sannin, in quel momento di spalle, intento ad accarezzare con un lungo dito bianco la testa di un serpente.
    «Per voi», annunciò Kabuto, lasciandoli quindi soli.
    L'uomo allora si voltò, sorridendo malizioso al piccolo, passandosi la lingua sulle labbra, gli occhi colmi di voluttà.
    «Orochimaru-sama», salutò rispettosamente chinando il capo, mentre il Sannin avanzava verso il minore, i cui capelli bluastri gli celavano l'espressione. Un serpente scivolò lungo le braccia del maggiore, sibilante, e con la testolina spinse verso l'alto il mento del ragazzino.
    «Guardami, Soryu», ordinò, e subito si ritrovò a fissare due grandi occhi lilla, le guance leggermente imporporate. Semplicemente delizioso.
    Si chinò verso il collo dell'altro, leccandolo lascivamente, mentre al piccolo sfuggiva un sospiro soddisfatto al sentire quella lunga lingua che lo solleticava.
    Dopo averlo vezzeggiato gli bastò osservarlo un attimo, bisognoso di attenzioni, per eccitarsi definitivamente.
    Premette sulle sue spalle, facendolo inginocchiare e Soryu, svelto, slacciò la cintura ingombrante di Orochimaru, abbassandogli i pantaloni e si ritrovò faccia a faccia con il grosso pene dell'altro. Non esitò un istante, accogliendolo subito in bocca e succhiandolo avidamente, mentre con le mani gli stuzzicava i testicoli gonfi.

    Il Sannin ansimò di soddisfazione, mentre spingeva la testa del ragazzo verso la propria intimità, che Soryu fece scorrere contro le guance, il palato per poi calarsela in gola. Amava sentire l'erezione consistente del suo padrone, quasi bruciante, talmente in profondità da soffocarlo.
    Non si permise neppure di respirare mentre succhiava quell'asta dritta e dura come il marmo.
    Andava fiero del talento che possedeva, riuscire ad eccitare fino a quel punto Orochimaru era una sua prerogativa, neppure con Sas'ke raggiungeva l'apice. Era una puttana, certo. Ma la sua preferita.
    «Basta così», rantolò Orochimaru, la punta del membro arrossata, la lunghezza tesissima.
    In un secondo lo sbatté con violenza sul letto, svestendolo in un istante per poter godere di quel corpicino gracile ed estremamente sensibile. Senza perdere altro tempo afferrò la solita corda, fissandogli stretti i polsi alla testiera, legandogli attorno al capo una fascia di stoffa in modo che gli coprisse gli occhi: sentirlo completamente succube lo mandava letteralmente in estasi.
    Scese immediatamente con la lingua lungo il torace magro ed acerbo del piccolo, prendendo a succhiargli e mordicchiargli i capezzoli, le mani pallide che correvano ad accarezzargli i fianchi sottili, le cosce delicate, fino ad assestarsi sul membro semi-eretto.
    Soryu non soffocò il gemito di piacere mentre si spingeva contro le dita del padrone, stordito dalla goduria che provava, acuita dall'impossibilità di muoversi e vedere. Orochimaru non riservava quelle attenzioni a nessun altro, solo a lui.
    La lingua lunga e serpentina del moro cominciò a lappargli il glande, per poi avvolgersi attorno all'intera lunghezza.

    «Aaah... Orochi... maru-sah-mah... », gli occhi gli si rivoltarono all'indietro dal piacere. Kami, voleva solo essere preso, sentiva l'orgasmo sempre più prepotentemente vicino.
    Anche il maggiore lo percepì e separatosi dal membro del piccolo, lasciò che venisse, non del tutto soddisfatto.
    “Kukuku”, ridacchiò, mentre faceva girare Soryu di spalle, facendogli rialzare i fianchi. Gli palpò le natiche, per poi allargargliele ed insinuarsi nel buchino già violato centinaia di volte con la lingua. Sentì l'anello di muscoli contrarsi e dilatarsi, già pronto ad accoglierlo. Non aveva bisogno di prepararlo, lo faceva solo per poter godere dei gemiti osceni del minore. Perciò si ritrasse, osservando il panorama: la fessura pulsava leggermente, come se non attendesse altro che essere spaccata.
    A quella visione il Sannin si leccò le labbra e terminò di svestirsi, per poi posizionarsi tra i glutei sodi e lisci del più piccolo. Pregustando quel caldo paradiso in cui di lì a qualche istante si sarebbe immerso, afferrò la propria erezione e lo penetrò con una sola, poderosa spinta.
    «Aaaah!», Soryu si contorse sotto di lui, dolorante e voglioso. Il modo sadico di Orochimaru di prenderlo lo faceva impazzire, andava istintivamente incontro alle spinte dell'altro, incurante del bruciore, concentrandosi solo sulla sensazione di venire posseduto e quasi spaccato da quell'uomo. La sua asta, già fastidiosamente bagnata dai precedenti umori, era di nuovo eretta ed invitante, ma il Sannin non se ne curò.

    Il ragazzino urlava il suo godimento senza vergogna, mentre cercava di trovare sollievo strusciandosi contro le lenzuola del letto. Sapeva che al suo padrone piaceva da morire sentire quanto lo mandava fuori di testa. All'ennesima spinta, quando vene sfiorato un punto in lui che lo mandò letteralmente in estasi provò tanto piacere che non temette di richiederlo, cosa che raramente si azzardava a fare.
    «Sìì... aaaaaah... aaancora... Oromimaru... samaaah....!!», lo pregò e l'uomo, ammaliato dalla voce chiara e gaudente del ragazzo, prese a fotterlo con maggiore forza ed energia, stordito dalla goduria che stava provando.
    Soryu sentiva le viscere in fiamme, il membro pronto ad esplodere un'altra volta. Poche altre spinte ed Orochimaru venne copiosamente in lui, con un gemito roco e pienamente soddisfatto, mentre anche Soryu finalmente si liberava. Si rigirò tremante, il respiro affannoso, mentre il Sannin gli scioglieva la benda. Il giovane era certo che non sarebbe riuscito a reggersi in piedi neppure volendo: ogni volta rimaneva senza energie, ma aveva sempre la sensazione che non gli bastasse mai. I suoi occhi lilla, liquidi per l'orgasmo, catturarono lo sguardo malizioso ed eccitato del maggiore che scese ad attaccargli il collo, seguendo solamente il suo istinto ed il ragazzo spalancava le gambe. Voleva ancora quel pene dentro di sé, sentirsi aperto, palpare il puro, bianco piacere.
    Orochimaru gli afferrò le gambe, che si allacciarono subito alle sue spalle e riprese a spingere forte.

    I gemiti dei due amanti rieccheggiavano nella stanza, mentre le candele andavano poco a poco esaurendosi. La cera colava densa dai bordi dei piattini, finché una goccia non cadde sull'addome del piccolo, che urlò.
    «Nnh... aah!», il bruciore si mischiava alla voglia. Orochimaru se ne accorse e, afferrata la candela, cominciò a passarla, ancora scottante, sulla pancia di Soryu.
    «Sìì... aaah... sìì...!», gridò stravolto dai brividi mentre il pene del Sannin entrava ed usciva da lui sconnessamente.
    L'orgasmo travolse entrambi di nuovo, lo sperma vischioso del maggiore colava lungo le gambe del ragazzo, l'addome ancora coperto di seme e cera.
    I respiri affannosi, soddisfatti saturavano la stanza e poco a poco il fiatare rapido di Orochimaru si trasformò in una risatina soddisfatta: quel piccoletto sembrava nato per farlo andare su di giri.
    Rimasero entrambi sdraiati per qualche minuto, una patina di stanchezza cominciava ad avvolgerli, finché l'uomo non slegò Soryu, che abbassò le braccia, massaggiandosi i polsi arrossati ed Orochimaru si alzava, per poi rivestirsi svelto.
    Il ragazzino quindi lo imitò, afferrando a sua volta i propri indumenti, celando la sua nudità all'altro.

    Infine, inchinatosi leggermente, uscì, trovando Kabuto ad aspettarlo, fissandolo truce, per poi aggiustare la propria espressione in una più rispettosa quando Orochimaru gli ordinò di portarlo a lavarsi.
    Una volta solo, il Sannin ghignò, lanciando un'occhiata al letto sfatto, e si passò nuovamente la lingua sulle labbra, assaporando il gusto dolciastro del prossimo incontro.



    おわり~




    1: seguimi. Ormai è un classico XD
    Link EFP nel titolo
  15. .

    ORANGE MASK





    Non era un'Uchiha.
    Avrei dovuto pensare al benessere del clan, ma non ero riuscito a trattenermi dal compiere quella scelta decisamente egoistica.

    C'era in corso la guerra: un tempo avevo visto morire familiari e nemici uno dopo l'altro, le città distrutte e la disperazione e la paura regnare sovrane, ora lo scenario era di altrettanta devastazione, ma non c'era nessuno ad assistervi.
    Era destino che io ed Hashirama – dannato! - ci saremmo scontrati, ma perché diavolo quella maledetta situazione avrebbe dovuto complicarsi ulteriormente?!
    Gli occhi di mio fratello mi avevano reso praticamente invincibile eppure non avevano captato quel pericolo: Senju avrebbe dovuto tener meglio sott'occhio sua sorella. Per quanto ne poteva sapere era morta in battaglia. Si capiva da come combatteva, il suo dolore. Sfogava la sua rabbia su di me, eppure pareva volersi trattenere, quasi provasse rimorso.
    Che cosa stupida, la pietà. Non ha senso aver compassione di un nemico, quanto l'unica cosa che egli brama è la vittoria, il riscatto, non importa a qual prezzo.




    ___うちは一 族___



    Il rombo dei tuoni squarciava il cielo tempestoso con ruggiti feroci, i lampi rischiaravano le nubi e l'aria umida, satura dell'odore della pioggia, della terra bagnata e del sangue.
    Si poteva quasi dire che fosse un momento di tregua, più quieto. Stavamo recuperando le forze ed il chakra, quando con la coda dell'occhio vidi avanzare a passi strascicati dei compagni, che portavano con sé una donna.
    Mi bastò osservarla un solo istante, notare sui vestiti l'assenza del ventaglio rosso e bianco, ma anzi, l'ultimo simbolo sulla faccia della Terra che avrei voluto vedere per attivare il Mangekyou Sharingan.
    Erika Senju.
    «Che bastardo, mandarci la sorella!», sputai velenoso.
    «Va' all'inferno!», ringhiò lei alzando il capo verso di me, i capelli biondo scuro intrisi di fango dondolavano inerti ai lati del viso, gli occhi color caramello colmi di odio e disprezzo.
    «Ci stiamo già finendo, per mano vostra!».
    «Ed è ciò che meritate, Uchiha!».
    La vidi rabbrividire per un attimo al mio sguardo iroso ed omicida. Scattai verso di lei, dandole un violento schiaffo su una guancia e afferrandole subito i capelli, tirandoli per farle alzare il capo e guardarla bene in faccia.
    «Non. Osare», la minacciai, facendo un cenno ad uno shinobi alle sue spalle. Venne imbavagliata all'istante, legata mani e piedi, le manette che le bloccavano il flusso di chakra.
    «Non mi abbasserò ad usarti come ostaggio», dissi. I suoi occhi non si separavano dai miei nemmeno per un secondo, attenti e guardinghi.
    «Ma non sperare di tornare dal tuo clan».
    E la portarono via.


    La battaglia continuava, incessante, come la pioggia ad Ame no Sato; ancora morti, feriti, sembrava impossibile quanto pochi eravamo rimasti.
    Non si poteva respirare un istante, combattevamo quasi senza ricordarci il motivo, ma volevamo vincere, per non perdere più nessuno e, soprattutto, per orgoglio del Clan.

    La Senju restava chiusa nella tenda tutto il giorno. Non ero così spietato da non darle nulla da mangiare, dal momento che non era mai stata in battaglia, ma nonostante ciò, lei non toccava nulla. Per lo meno, ne ammiravo la forza di volontà.
    Purtroppo era il tipo di persona che non si dà mai per vinta e non smise un solo istante di cercare di scappare.


    ___うちは一 族___



    Avevo perso. Hashirama era diventato Hokage.
    Come poteva Konoha riconoscerlo come tale? Dopo il massacro, la strage procurata al nostro clan durante la guerra, con che coraggio ci guardavano in faccia, i Senju?
    Non ne avevo idea, ma decisi di andarmene lontano da lui e dal clan, che dopo i numerosi lutti e seppellimenti dei nostri cari cui eravamo stati costretti, desiderava solo la pace. Non riuscivo a comprendere come si potesse dimenticare, accantonare l'odio, la sofferenza. Era una vergogna, quel cedimento, e ne ero nauseato.

    Nel giro di due giorni avevo già preparato tutto il necessario per partire, lasciarmi alle spalle quel villaggio e quella guerra infamante.
    Peccato che ad Hashirama fosse venuta in mente l'idea di convocarmi. Che ipocrita, avrebbe potuto venirmi a cercare di persona. A quanto pare non ero alla sua altezza. Digrignai di denti, infuriato, mentre mi dirigevo al palazzo dell'Hokage, borse in spalla. Avrei sentito le fesserie che doveva riferirmi e me ne sarei andato senza troppi complimenti.
    Camminavo svelto lungo i corridoi illuminati, diretto al suo ufficio, scocciato, quando una porta si spalancò: ne uscì una ragazza dai lunghi capelli biondo scuro e le iridi color caramello. Non appena la vidi assottigliai gli occhi, infastidito. Volevo passare oltre senza fermarmi, ma si accorse di me e prese a rincorrermi lesta.
    «Madara! Madara, matte! (1)».
    I suoi passi erano sempre più vicini, ma non avevo voglia di correre e mi raggiunse poco dopo, afferrandomi il braccio. Mi fermai all'istante, come scottato e mi liberai immediatamente dalla presa, lo Sharingan attivo.
    «Non toccarmi», la gelai.
    Lei assunse un'espressione colpevole, che si aggiunse a quella sera precedente. Sembrava temere che sparissi da un momento all'altro, si torceva le mani in grembo come trattenendosi dal fermarmi di nuovo usando il contatto fisico. Ero stupito, e sospettoso.
    «Mi dispiace che le cose siano andate così», confessò infine.
    Strinsi gli occhi.
    «Che ipocrita. Se non avessimo perso non sareste così privilegiati. Non credo ti sarebbe piaciuto finire come noi».
    Il suo sguardo si indurì.
    «Non intendevo questo. Non dovevamo combattere».
    Che ingenua.
    «E' inutile discuterne, ognuno crederebbe di aver ragione», replicai in tono feroce. «Ci siamo battuti. Avete vinto».
    “Per ora”.
    «Non ho nient'altro da dire».
    Le voltai di nuovo le spalle, diretto dal fratello per farla finita, ma lei non demorse, riprendendo a rincorrermi.

    «No, non va bene così! Finiremo per scontrarci di nuovo! E non voglio che ai nostri clan vengano arrecate altre perdite».
    Un lieve spostamento d'aria mi informò che aveva nuovamente allungato il braccio per trattenermi, ma fui più rapido e la sbattei contro il muro, tenendola per il collo. Lei però non pareva spaventata.
    «Sei libero di non credermi», disse tranquilla, le mani strette alla mia per cercare di allentare la presa, e le sue parole sembrarono ad un tratto spaventosamente sincere.
    «Come puoi dirlo?», domandai, per poi cambiare idea. «Non importa».
    Dopotutto era una quisquilia. Tolsi la mano.
    «Tu te ne andrai però», fece lei, accennando alla sacca che avevo in spalla.
    «E dunque? Non ho più niente da fare qui. Persino il mio clan … ». La frase restò sospesa. Che pena, raccontarlo così, alla sorella dell'Hokage…
    «Fammi venire con te».
    “Nani?!”, ero troppo sconvolto per pensare altro, la sua proposta era stata come un fulmine a ciel sereno.
    «Ma che diavolo dici?!».
    Si avvicinò ancora, stringendo le dita alla manica del mio mantello. Stavolta non la scostai, tanto era lo stupore.
    «Voglio venire con te», ripeté sicura. «Durante la guerra… ho dovuto assistere e curare i membri del mio clan, senza poter realmente fare qualcosa per contribuire mentre gli altri morivano, si sacrificavano! Dovevo stare in silenzio, avere sempre i jutsu medici pronti. Ma volevo aiutare la mia famiglia in modo concreto. Hashirama e Tobirama non me lo hanno permesso!», esclamò poi, frustrata. Non mi perdevo una parola. «Sai cosa significa?! Ora avete stretto una tregua, fondato Konoha, ma come posso tollerare di andarmene in giro così? Non avrei il coraggio di guardare in faccia nessuno!».
    Le sue parole scendevano lente nel mio cervello, le assimilavo. Nemmeno io potevo, seppur per un motivo differente. Tuttavia, la sua proposta restava fuori discussione.
    «Non è il ca-… ».
    «Madara», mi interruppe, aspramente, stavolta. «Di cosa hai paura?».
    Grugnai infastidito. La paura non sapevo neppure cosa fosse, non l'avevo mai provata. Solo rabbia, frustrazione. Ma il terrore mi era sconosciuto. Tuttavia tenni per me questi pensieri e la rimproverai.
    «Solo perché non hai potuto scendere sul campo di battaglia non significa che abbia senso seguire me».

    Che cocciuta che era.
    «Invece sì. Potrà essere una scelta egoista quella di fuggire e non curare più nessuno, ma volevo combattere. E anche se nemmeno tu me l'hai permesso, ho capito… che non sei crudele come pensavo. E' stupido, ma anche tu volevi proteggere il tuo clan».
    Scossi la testa, la mia pazienza andava scemando.
    «Io volevo solo diventare più potente, Erika. E anche i tuoi fratelli. Non sono sono così perfetti come credi», rivelai in tono sarcastico, facendole finalmente abbassare lo sguardo.
    «Non è questo il punto».
    «Kami, Erika! Sto per lasciare il villaggio, perché diavolo vuoi seguirmi?!», sbottai.
    Lei aprì la bocca, come per parlare, ma solo per poi richiuderla e mordersi un labbro. Rialzò lo sguardo, fiera e seria di nuovo.
    «Che fastidio ti darei? Sono anche un medic-ninja».
    Non mi aveva risposto e non comprendevo le sue ragioni: l'avevo imprigionata, maltrattata, insultata e nonostante i Senju avessero vinto voleva venire con me. Continuava a fissarmi fiduciosa, aspettando una risposta. Ero certo che avrebbe insistito senza problemi.
    Alla fine, sbuffai esasperato, voltandomi e facendole un cenno con la mano.
    «E va bene. Preparati».



    Avevo deciso di ignorare l'incontro con Hashirama, ma d'altronde dubito che sarebbe cambiato qualcosa se ci saremmo incontrati.
    Eravamo partiti da un paio d'ore, camminavamo senza curarci dei confini. Erika poteva vantare un'ottima abilità di resistenza, teneva il passo ed imparava in fretta. Mi aveva praticamente costretto ad insegnarle a combattere, cosa che apprese rapidamente e mi permise di testare il suo Mokuton, che come ogni Senju possedeva. Dopotutto, averle concesso di seguirmi aveva i suoi vantaggi.

    I giorni cominciarono a confondersi, le settimane passavano, gli allenamenti si intensificavano. Ero sorpreso di non aver ancora percepito alcun chakra di Konoha, anche se – poco ma sicuro – ci stavano seguendo.
    Lavoravamo bene in squadra: ognuno riusciva ad adattarsi agli stili di combattimento dell'altro, sorprendendo il nemico ad ogni attacco. Non ci avvicinavamo però ai villaggi ninja, certi che le voci riguardo il primo Hokage si fossero diffuse ed io volevo passare inosservato, cosa che il simbolo del mio clan, svettante sui miei abiti, mi impediva di fare, senza contare che viaggiavo con la sorella di Shodai al seguito.
    Tuttavia sfruttavamo parecchio le Henge, tramite cui riuscii poco alla volta ad informarmi sulla posizione ipotetica di Kyuubi no Youko. Erika mi aiutava nella ricerca, ma chiaramente la tenni all'oscuro dei miei piani, certo che non li avrebbe approvati. D'altronde anche se l'avesse scoperto, sarebbe stato un problema del quale disfarsi non era complicato.
    Hashirama non avrebbe vinto stavolta: avrebbe pagato per l'umiliazione che aveva fatto subire agli Uchiha.


    Una sera finimmo alle onsen per riposare. La stazione termale era fuori mano, ma molto confortevole: una volta fatta arrivare una bottiglia di saké nella stanza aprimmo la porta in carta di riso che dava sulla vasca privata e ci svestimmo senza troppi complimenti, portando l'alcolico con noi ed adagiando gli asciugamani vicino al bordo.
    Non appena mi immersi nell'acqua caldissima sentii i muscoli sciogliersi e accanto a me Erika sospirò soddisfatta, un sorrisetto sul volto.
    «Aah, ci voleva proprio, vero?», chiese chiudendo gli occhi, mentre anche le labbra si piegavano all'insù: era l'immagine del relax, con la testa reclinata all'indietro, appoggiata alle spugne candide.
    Sì, un attimo di tranquillità non poteva far male.
    Stavamo in silenzio, a goderci la sensazione di liberazione che diffondeva il liquido caldo attraverso la pelle accaldata.
    I miei occhi si spostarono istintivamente sul corpo dell'altra, celata dall'acqua appannata in superficie per il calore.
    “E' una bella sensazione dopotutto”, pensai mentre attivavo lo Sharingan e sbirciavo sott'acqua, leccandomi le labbra. Non provai nemmeno a scacciare i pensieri che mi avevano invaso la mente, chi se ne importava che fosse una Senju?
    Ad un tratto lei aprì le palpebre – probabilmente si sentiva osservata – e mi guardò sorridente.
    «Beviamo?», domandò, ed io, rialzando lo sguardo, allungai una mano ad afferrare il saké e due tazzine, riempiendole quasi fino all'orlo.
    «Alla nostra», brindò, e facemmo scontrare le porcellane per poi mandar giù l'alcolico. Dopo il terzo bicchierino le sue guance si erano tinte di un rosato particolarmente stuzzicante.
    «Sai, Madara … credo di non averti mai odiato quanto avrei dovuto», fece ad un certo punto. In condizioni normali probabilmente un'affermazione del genere mi avrebbe irritato e stupito al contempo, ma in quel momento ero brillo e mi fece sogghignare: magari avrei potuto trasgredire la regola che mi ero imposto quando il mio clan l'aveva catturata durante la guerra, e cioè non sfiorarla neppure con un dito – in senso lato, chiaramente. D'altronde all'epoca l'idea mi ripugnava, ed umiliarla in quel senso non sarebbe servito a niente. Ma lei, seguendomi, aveva ripudiato il suo clan, seppur per motivi che non comprendevo e non ero a conoscenza neppure della sua consapevolezza riguardo le proprie azioni.
    «Io invece sì», commentai in tono leggero, voltandomi leggermente verso di lei. Sospirò.
    «Già, suppongo sia co- … ».

    Non finì la frase perché le mi labbra si posarono sulle sue, succhiandole voracemente. La sua sorpresa durò mezzo secondo, mentre quello successivo fremeva e ricambiava con altrettanta enfasi. Mi spostai velocemente tra le sue gambe, che prontamente allargò, e cominciai a sfiorarle il corpo con audaci carezze, sentendo sotto i polpastrelli la liscezza e la morbidezza di quella pelle, mentre lei gemeva piano nel bacio ed intrecciava le dita ai miei lunghi capelli per attirarmi a sé. Le nostre lingue danzavano estasiate, allacciandosi e gustandosi a vicenda, mentre le pizzicavo i capezzoli, strappandole ansimi che finivano intrappolati nella mia bocca.
    Complici l'alcool ed il mio desiderio, decisi che per una volta si poteva fare … era così inebriante che mi ritrovai a chiedermi come mai non l'avessi fatto prima.
    «Madara... », sospirò lasciva, facendomi eccitare ulteriormente, e con gli indici scivolò lungo la mia spina dorsale, provocandomi un brivido, finché la mano non giunse alla mia intimità, prendendo a masturbarla sapientemente.
    «Aah … », gemetti, e mi separai dalle labbra di lei poggiando la fronte sulla sua spalla, ansimando, per poi voltarmi verso il suo collo e prendendo a succhiarlo, mordicchiandone la pelle morbida più o meno forte, a seconda dell'intensità delle strette.
    Non un solo pensiero coerente mi attraversò la mente, sapevo solo di star godendo, e parecchio.
    Mentre la sua mano continuava a muoversi sul mio pene, le mie scesero lungo i suoi fianchi sottili, giungendo alle natiche sode e prendendo a palparle, mentre la sollevavo e le facevo allacciare le gambe al mio bacino. A quel punto i seni non erano più celati dall'acqua, ma ben visibili: il cambio di temperatura le fece irrigidire ulteriormente i capezzoli, uno dei quali finì subito nella mia bocca famelica.
    «Nnh … », avevo la sua voce lasciva per il piacere nell'orecchio, cosa che mi portò ad indurirmi ancora di più.
    La volevo, la desideravo terribilmente. Una mano si spostò sulla sua pancia morbida, violò l'ombelico, penetrandolo appena e strappandole un altro sospiro per poi giungere alla sua femminilità e cominciare a stuzzicarle il clitoride con l'indice, mentre l'anulare cominciava ad infilarsi nella vulva, sfiorandone le morbide pareti interne.
    «Kami, Madara … ah … », miagolò, cominciando a spingersi verso le mie dita ed io passavo all'altro seno, lasciando il precedente con un piccolo morsetto che le fece spalancare nuovamente la bocca.
    Sapevo che non avrei resistito ancora per molto, e anche lei non sembrava voler attendere a lungo.
    Ripresi a baciarla famelico, uno scontro di denti e lingue che non voleva aver fine, necessario ed eccitante.

    «Erikaah … ti voglio … adesso! … Nnh … », biascicai, bloccandole la mano con cui mi stava masturbando ed estraendo le dita dalla sua intimità. Afferrai il mio pene e lo diressi subito alla sua entrata, bisognoso, senza staccare gli occhi dai suoi, e la penetrai.
    «Aaah! … », un gemito le sfuggì dalle labbra, che morse subito per tentare di arginare il dolore. Chiuse gli occhi, concentrata, mentre affondavo ancora di più, il suo petto che si alzava ed abbassava rapidamente.
    «Resisti, ti prego», le sussurrai, appoggiando nuovamente le mie labbra sulle sue, dolcemente, leccandole piano. Mi artigliò le spalle, schiudendo le labbra ed intraprendendo una lotta per la supremazia con la mia lingua, cercando di distrarsi dal fastidio.
    Non mi ero mosso, aspettavo trepidante il via libera; non sapevo come riuscissi a trattenermi, quando desideravo solo prenderla fino allo sfinimento.
    «Muoviti», disse infine ,ed uscii da quell'antro caldo ed accogliente per poi ritornarvi con maggiore impeto.
    Presi a spingermi velocemente in lei e l'aria si riempì quasi immediatamente dei nostri gemiti, mentre l'acqua debordava dalla vasca. Avevamo concentrato il chakra nei nostri bacini, rendendo il ritmo frenetico.
    «Ma … dara … aaaaah! Sì … ».
    Kami, sentirla così eccitata era una gioia per le mie orecchie e per il mio cazzo, sempre più duro. Eravamo avvolti dalla goduria, non sentivamo niente che non fosse l'altro e quando centrai un punto in lei che la fece ansimare senza ritegno, il piacere sfiorò livelli che non avrei mai pensato di raggiungere.
    Erika continuava ad incitarmi mentre mi spingevo selvaggiamente in lei, stordito dalla libidine.
    E poi esplosi, quasi senza accorgermene, riempiendola del mio seme che andò a mischiarsi con i suoi liquidi e gemiti liberatori sfuggirono al nostro controllo. La forza dell'orgasmo mi impedì di muovermi e rimasi in lei ancora qualche minuto, ansimando pesantemente, ascoltando il suo respiro affannoso, il battito del suo cuore.
    Infine uscii, mettendomi a sedere, ma lei non mi lasciò, tirandomi verso di sé e baciandomi dolcemente, senza approfondire, mentre con una mano mi accarezzava il volto, lasciandomi stupefatto. Aprimmo gli occhi e ci guardammo: riuscivo a specchiarmi nei suoi, ancora lucidi per l'eccitazione di poco prima ed appoggiai la fronte sulla sua, le nostre labbra vicinissime, i respiri ancora non completamente regolari che si mescolavano.

    «Madara … », mi chiamò.
    «Sì?», domandai, quasi in trance.
    «Sai quando ti ho chiesto di portarti con me, e mi sono trattenuta dal dirti qualcosa?».
    «N-hn».
    «Era solo … che sono innamorata di te».
    Sgranai gli occhi e feci per allontanarmi, turbato, ma lei mi trattenne.
    «No, ascolta. Magari tu non ricambi, ma… è ciò che sento io. Te l'ho detto, è da molto tempo che non ti odio più».
    La guardavo ammutolito, senza sapere cosa dire.
    “È una Senju, una Senju...”, insistevo a ripetermi, ma neppure la razionalità aiutava.
    «Eppure quando eravamo in guerra non parevi così … bendisposta».
    «Già … », fece lei pensierosa. «Ma era solo per via della battaglia, di ciò che mi avevano insegnato. Non chiedermi cosa sia cambiato, non lo so. Ma è successo».
    Scossi la testa.
    «Erika … non sono così buono come credi tu, anzi. Te l'assicuro. Non esiterei a distruggere Konoha se vi tornassi, né ad ammazzare i tuoi fratelli, come non ho esitato ad uccidere il mio».
    Finalmente un lampo di paura le attraversò le iridi caramellate.
    «Ma non mi imp- … ».
    Le posai un dito sulle labbra.
    «Non dire che non t'importa, lo so che è una menzogna».
    Mi spostò il dito, voltando il capo altrove, lo sguardo basso.
    «È una mia scelta».
    La fissai, concentrato, per poi chinarmi e prenderla in braccio, portandola fino al futon, dove la depositai con delicatezza. Il suo sguardo era stupefatto, ma aveva ragione, la scelta era sua.
    Mi sdraiai su di lei, sorreggendomi con le braccia.
    «E va bene», concordai, e mi chinai a baciarla di nuovo.


    ___うちは一 族___


    Avevo avuto un figlio. Kagami, così l'avevamo chiamato. Kagami Uchiha, dagli occhi e capelli scuri come la pece, e che ora aveva sei anni. Gli avevamo insegnato tutto ciò che sapevamo, era abile e molto intelligente, senza contare che possedeva già lo Sharingan a due tomoe. Tuttavia, la sua maggior abilità consisteva nel creare jutsu spazio-temporali di livello base, cosa che ci sorprese quanto sconcertò.
    Non ci eravamo stabiliti da nessuna parte, viaggiavamo di continuo, fermandoci solo di tanto in tanto in qualche piccolo agglomerato. Kagami non sembrava infastidito dalla vita del ramingo e ogni qual volta ci imbattevamo in qualche nemico era pronto a combattere, lanciare kunai, predisporre trappole.
    Man mano che passavano le settimane ero sempre più turbato: sentivo che era giunto il momento che tornassi a Konoha. Ormai possedevo il Kyuubi e avevo limato ogni dettaglio: tirarla per le lunghe non sarebbe servito a nulla, perciò da qualche giorno avevo deviato il cammino verso la Foglia. Erika se n'era accorta, ma non disse niente e quando finalmente varcammo le enormi porte del villaggio provammo una strana sensazione, nemmeno troppo piacevole. Kagami osservava incuriosito gli edifici colorati, i ninja che passeggiavano per strada.
    Ad un certo punto Erika rallentò fino a fermarsi, e mi guardò preoccupata, stringendo il figlio a sé.
    «Non so quanto ci convenga dirlo ai miei fratelli», disse accennando al ragazzino tra di noi.
    «Pensavo lo stesso».
    L'unica cosa da fare era tenerlo tra gli Uchiha, e al mio clan apparteneva, dopotutto.


    Separarci da lui ci fece dolere il petto.
    Avevamo raccomandato ad un mio cugino di prendersene cura, dal momento che non potevamo più occuparci della sua educazione. La sete di vendetta verso Shodai che covavo da annì si acuì ulteriormente al pensiero che non avrebbe mai riconosciuto Kagami, e mi bruciò le vene: non solo avevo subito umiliazioni da parte sua, ma se avesse saputo che la sorella era la madre di mio figlio avremmo finito tutti di vivere. Probabilmente non l'avrebbe scelto lui, ma Tobirama ed il villaggio diffidavano ancora fortemente degli Uchiha. Strinsi i denti.
    Kagami ci aveva salutato con uno sguardo triste ed un po' duro, ma sapevamo che se la sarebbe cavata e sarebbe diventato forte.



    Eccomi al piano di Hashirama. Erika era con il minore dei fratelli, che non appena l'aveva vista, aveva cominciato a porle infinite domande. Grazie a Kami avevo deciso di entrare nell'edificio dopo di lei, che come da accordi non disse nulla riguardante me o Kagami.
    Toc Toc!
    «Hai, doozo (2)», sentii dall'interno e spalancai la porta, avanzando sicuro verso la scrivania dell'Hokage che sollevò subito lo sguardo, stupefatto, e si alzò subito in piedi.
    «Madara! … ».
    Aggirò rapidamente il tavolo, venendomi incontro, ma fui più rapido ed estrassi la katana, puntandogliela al collo, a due millimetri dalla giugulare.
    «Sei morto, Senju».




    Pioggia.
    Gocce di pioggia mi bagnavano i vestiti, attaccandomeli alla pelle, il mal di testa mi impediva quasi di aprire gli occhi.
    Ero certo di essere prossimo alla morte, il sangue si mischiava alle lacrime che mi piovevano addosso, la ferita nel petto, aperta, rendeva ogni respiro un'agonia, come fossi infilzato da mille kunai.
    Stavo perdendo pian piano la sensibilità delle dita, il manico della katana che stringevo era come impalpabile, inesistente. Sul mio palmo non percepivo più nulla.
    Quella dannata Uzumaki (3)… come avesse fatto a sigillare il Kyuubi prima che potessi evocarlo non riuscivo a spiegarmelo, non fosse stato per lei avrei vinto, invece si era tutto concluso con l'ennesimo pareggio, ed il corpo di Hashirama ora giaceva di fronte a me, senza vita, ed io stavo per raggiungerlo.
    Ripudiato dal clan, dal villaggio… non stavo lasciando il mondo con onore, come si conviene ad un Uchiha.
    Per un attimo il volto di Erika mi balunginò davanti agli occhi, sostituito poi dall'immagine di mio figlio … ormai era lui il capo del clan, sarebbe divenuto inarrestabile e l'avrebbe vendicato, ne ero certo.
    “Kagami … ora tocca a te …”



    ___うちは一 族___



    Un giovane ragazzo sorrise amaramente, fissando con espressione dura la sontuosa tomba in cui giaceva il corpo del padre. Il nome del defunto spiccava sotto il simbolo del clan, fiammeggiante sul marmo bianco, il bel volto di lui rovinato dal tanto rammarico che vi era dipinto.
    Era tutta colpa di quelle insensate lotte per il potere se era finita così: non spettava a semplici shinobi il controllo delle regioni e dei villaggi, sarebbe finita in un massacro, un lago di sangue. Il mondo era già stato sconvolto da due grandi guerre che non erano state utili ad appianare alcuna divergenza, anzi, i conflitti continuavano ad esserci, ed i ninja ad ammazzarsi a vicenda.
    Era la pace che doveva regnare, per quanto fittizia o temporanea, pensò osservando la luna. Dopotutto il mondo shinobi era già pieno di menzogne, tradimenti e disonore.
    L'astro argenteo si rifletté nel suo Sharingan e nella mente del giovane, poco a poco, cominciò a prendere forma un'idea …
    Si diresse subito verso casa, raccattò le proprie cose e si preparò a partire, non aveva tempo da perdere.
    Mentre frugava tra i suoi effetti gli capitò tra le mani una maschera di quando era ancora bambino, regalatagli dallo zio: era bianca, con una spirale color pece che convergeva nell'occhio destro. La osservò per qualche istante, ipnotizzato, per poi intascarla quasi inconsciamente, ed uscì dal quartiere.
    Il suo clan, così fiero, relegato ai margini del villaggio, come fosse appestato, magra consolazione l'essere a capo della polizia di Konoha … Tobirama li aveva solo presi in giro.
    Il ragazzo digrignò i denti, amareggiato, e superò le porte est, lasciando quel posto tanto odiato, pronto a cominciare le proprie ricerche.
    La caccia al Juubi era aperta.



    おわり~





    1: Madara, aspetta!
    2: Avanti!
    3: Mito Uzumaki


    Link EFP nel titolo
310 replies since 28/7/2010
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